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Donne d’Asia tra oppressione e leadership: la cittadinanza onoraria di Roma a Aung San Suu Kyi

“Non ho fatto sacrifici, ma solo scelte”. Lo dice in un inglese perfetto, di marca britannica, Aung San Suu Kyi, birmana, premio Nobel per la pace, che ieri in Campidoglio ha ricevuto dalle mani del sindaco Ignazio Marino la cittadinanza onoraria che, da 19 anni, attendeva di esserle consegnata solennemente.
L’immagine minuta ed elegante di questa donna, che con il silenzio e la non violenza ha tenuto testa per anni ad uno dei regimi considerati tra i più duri del mondo, quello dei generali birmani, non tradisce le aspettative.
Ma c’è qualcosa di più in questa donna asiatica, con i suoi fiori nei capelli raccolti, il volto dolce che accenna i sentimenti con movimenti quasi impercettibili, e tuttavia è così a suo agio con quel suo inglese così britannico, tanto da fare concessioni ad una gestualità inusuale per una donna buddista (non teme di farsi abbracciare dal sindaco), e capace di colloquiare con una certa “verve” : “ho scelto Roberto Baggio per ritirare il premio al mio posto, quando ero imprigionata, perchè il calcio italiano è molto popolare tra i giovani, e poi … perchè porta l’orecchino e a me gli orecchini piacciono molto”. 
Tutto ciò dice qualcosa che ci fa pensare.
Aung San Suu Kyi è una figlia dell’Asia. Come altre donne asiatiche – Benazir Bhutto, Megawati Sukarnoputri, Corazon Aquino, per citarne solo alcune – riceve un mandato, o meglio forse si identifica in una missione, per una relazione familiare, come moglie o figlia di un uomo che ha incarnato un ideale di libertà per il suo popolo. E lo interpreta con determinazione e coraggio. Senza timore di esercitare una leadership che la sua cultura – buddista in questo caso, ma altrove islamica – sembrerebbe non concederle.
E qui tocchiamo con mano un paradosso: l’Asia, continente in cui i diritti delle donne sembrano – e sono – così conculcati, è anche il più prodigo di grandi figure femminili, capaci di ricoprire ruoli politici al massimo livello.
Eppure, queste donne asiatiche hanno tutte, in un modo o nell’altro, fatto esperienza della cultura europea. In Europa hanno studiato, all’Europa si sono appoggiate le loro famiglie nelle battaglie per principi che l’umanesimo europeo considera inalienabili e che spesso sono ancora un obiettivo da conquistare nei paesi asiatici. Sono asiatiche, ma non son anche anche figlie di un incontro tra culture, in cui l’umanesimo europeo ha saputo giocare un ruolo decisivo? E questo non suggerisce una via per un umanesimo asiatico tutto da pensare e da costruire? Non si può evincerne un modello. Ma è una suggestione da non tralasciare.
Forse proprio l’incontro tra condizione femminile, umanesimo europeo e determinazione asiatica può essere foriero di una cultura meticcia che può produrre fenomeni di grande interesse. Conviene tenerla d’occhio.

 Valeria Martano

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