FATTI

Il giorno della memoria: tributo alle vittime del passato, impegno per il presente e per il futuro

Domani, 27 gennaio, si celebra il Giorno della Memoria. 

Anniversario dell’ingresso nel campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz delle truppe  dell’Armata Rossa, lanciate nell’offensiva che le avrebbe condotte a Berlino, la ricorrenza è divenuta occasione di commemorazione dell’Olocausto, monito alle future generazioni perché ciò che è accaduto 70 anni fa, l’orrore dei lager, ma anche la vergogna delle leggi razziali, l’infamia della predicazione dell’odio e del disprezzo, non abbiano più a ripetersi. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente al mondo l’abisso e la portata del genocidio nazista e di ogni cammino che porta al genocidio.
Fare memoria è allora un dovere, un impegno, un testimone da consegnare al domani, alle nuove generazioni. Con lo spirito di chi compie un atto quasi religioso, di chi si lega a un evento, di chi vuole perpetuarne il valore simbolico e la ricaduta storica. Tributo alle vittime del passato, il Giorno della Memoria diviene scelta per il presente e per il futuro, vicinanza a chiunque, anche oggi, soffre per la discriminazione razziale, etnica, religiosa, a chi, anche oggi, si ritrova facile capro espiatorio di singoli o di gruppi frustrati e divisi, per ogni uomo, donna, bambino, che è bersaglio di insulti, di disprezzo, di odio, solo a causa della propria origine, del proprio status, delle proprie convinzioni.
Il Giorno della Memoria, dunque, nasce dal ricordo dell’abnorme strage nazista, dell’immane sofferenza del popolo ebraico, ma si fa riflessione pensosa legata a tanti altri genocidi, quello degli armeni nel 1915, quello dei rom nel medesimo baratro dell’universo concentrazionario nazista, quello dei tutsi nel 1994. Questo Giorno della Memoria, che cade nel ventesimo anniversario della strage degli Inyenzi, gli ‘Scarafaggi’ tutsi, come gli hutu li chiamavano in quella tragica primavera rwandese, ci deve fare avvertiti di quanto le parole possano essere

pietre, di come il nostro linguaggio debba sempre essere attento e sorvegliato.

Ecco come Primo Levi, ne “La tregua”, descrive la liberazione di Auschwitz: “La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. […] Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. […] Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.
Che quella vergogna sia sempre anche la nostra.

Francesco De Palma
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