FATTI

Sotto assedio. Un mondo al bivio tra chiusura e fraternità

Il tempo che stiamo vivendo promette di essere uno spartiacque nella storia del mondo. L’accumulazione di ricchezza da parte dell’Europa prima, dell’Occidente nel suo insieme poi, volge alla fine. Le performances economiche dei paesi emergenti ci parlano di un pianeta diverso, anticipano il riequilibro che verrà, se non il tempo in cui in altri continenti si vivrà meglio che da noi. Al di là del nostro a volte ristretto orizzonte si coglie una spinta che significherà l’uscita dalla povertà per decine, centinaia di milioni di individui. 

Se questo è vero, però, è vero anche che, soprattutto in quei territori in cui crescita economica e relativo benessere iniziano a diffondersi, il volto della nuova era appare già sfregiato da incredibili diseguaglianze, da profonde fratture del corpo sociale, da un’ingiusta distribuzione delle possibilità e dell’accesso ai servizi migliori, a quell’insieme di garanzie sul piano educativo, sanitario, infrastrutturale che fanno la qualità della vita.
Il mondo diventa più ricco, nel suo complesso, ma non più uguale, né più compatto. Al suo interno si aprono crepe di notevoli dimensioni, si avvertono sinistri scricchiolii. Cresce, di pari passo con il PIL mondiale, una disuguaglianza dai contorni strutturali, uno squilibrio dai tratti inquietanti.
Eppure di fronte a tale scenario non si afferma l’urgenza di politiche redistributive, né si studiano percorsi di crescita più equilibrati. In maniera miope, alla fin fine autolesionista, vince, piuttosto, il ricorso alla fortezza, su scala nazionale o di gruppo. Come ha affermato in una recente intervista Branko Milanovic, della Banca Mondiale, tra i massimi esperti di disuguaglianza globale, autore di “Mondi divisi” e di “Chi ha e chi non ha”, “il mondo ricco si sta

recintando”.

Il muro è uno dei simboli del nostro tempo. Il simbolo di un mondo in cui poveri e ricchi sono più vicini, forse troppo vicini. E dunque devono essere tenuti lontani, separati. Il simbolo di una società che si sente sotto assedio, che guarda con ansia al crescere della disuguaglianza senza fare nulla per porvi rimedio, solo paventando le ricadute di tutto questo entro i propri confini, mentali e non.
E’ quanto accade – è ben noto – alla frontiera tra Stati Uniti e Messico, attorno alle enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, nel mare che circonda Lampedusa, nel breve tratto di confine tra Grecia e Turchia. 
Ma anche – ed è meno noto, invece – a est e a sud di Suez. Un’imponente opera di fortificazione è in costruzione tra India e Bangladesh, una rete di filo spinato elettrificato eretta dalle autorità indiane per proteggersi da migranti indesiderati; sistemi protettivi sono presenti al confine tra Arabia Saudita e Yemen per frenare il transito dai paesi del Corno d’Africa verso quelli del Golfo Persico. E si potrebbe continuare ….
Del resto qualcosa del genere accade, su scala diversa, più piccola, ma moltiplicata per miriadi di volte, anche nel micromondo dei compound, più o meno sorvegliati, più o meno

inaccessibili, dove si rifugiano nuovi e vecchi ricchi, in quelle aree sempre più autosufficienti e fortificate che sorgono come funghi nei grandi centri urbani dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia.

Un intero mondo si sente sotto assedio, si comporta come fosse il tempo di tornare ai bastioni e ai baluardi del Medioevo. Ma è, questa, una strada percorribile? Non è un tragico vicolo cieco, un’illusione che non potrà mai generare più sicurezza, bensì più risentimento e più ansia? Non sarebbe più umano, più giusto, e tutto sommato anche più economico lavorare per un mondo più solidale e fraterno? Non sarebbe più responsabile lasciarsi andare all’idea che, come scrive papa Francesco, “sia la relazione fraterna con il prossimo a costituire il bene più prezioso” da difendere?

Francesco De Palma
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