FATTI

“We were strangers once, too”. Obama e l’immigrazione

Sarà forse un'”anatra zoppa” – come dicono gli americani – dopo il flop democratico alle recenti elezioni di Midterm: ma a me Barak Obama ha molto impressionato nel suo recentissimo discorso alla nazione sugli immigrati e l’immigrazione.
Affrontava un tema difficile, come ha ripetuto in più passaggi. Un tema che divide, anche dalle nostre parti. Un tema che scatena reazioni non sempre lucide, specie nel dibattito politico.
Eppure, c’è qualcosa di notevole che è stato detto, lo scorso 20 novembre.
Obama non ha fatto esattamente quello che si potrebbe definire un discorso da “buono”: ha rammentato la necessità di rispettare le regole, di difendere le frontiere, di espellere i criminali.
Ma ha detto dell’altro. Ha raccontato della sua decisione di “stabilizzare” circa 5 milioni di immigrati illegali, per il loro bene e per il progresso dell’America. Poi, verso la fine, discretamente, ha ricordato:

La Scrittura ci dice di non opprimere lo straniero, perché noi conosciamo cosa c’è nel cuore del forestiero. Anche noi fummo forestieri, una volta.

Obama cita uno dei più importanti passi del libro dell’Esodo, al capitolo 23, versetto 9: l’eterno richiamo dell’Eterno al popolo d’Israele perché non si dimentichi di essere stato straniero in Egitto.
Curioso invito, questo, a ben riflettere: perché il ricordo dell’oppressione passata nella vita da forestieri poteva essere evocato per invitare il popolo a non lasciarsi più sottomettere, mentre invece viene rammentato per immedesimarsi oggi nei panni dello straniero che è tra di noi.
Paese di immigrazione: si tratta forse di uno dei caratteri più incisivi e fodanti dell’identità USA. Ha detto Obama:

Si tratta di ciò che siamo come paese, e che vogliamo essere per le generazioni future […] Cari americani, siamo e sempre saremo una nazione di immigrati. Anche noi fummo forestieri, una volta. E se i nostri antenati erano forestieri che hanno attraversato l’Atlantico, o il Pacifico o il Rio Grande, noi siamo qui solo perché questo paese li ha accolti e gli ha insegnato che essere americano è di qualcosa di più di quello che sembriamo o di quello cui alludono i nostri cognomi, o della religione che abbiamo. Ciò che ci rende americani è il nostro impegno comune per un ideale, che tutti siamo stati creati uguali, e che tutti abbiamo la possibilità di fare delle nostre vite ciò che vogliamo.

Il nostro paese, l’Italia, non è estraneo a questa storia: per decenni, ne ha partecipato a piene mani, come sanno i tanti connazionali che hanno lasciato il proprio luogo natale per quell’America che oggi ha deciso di regolarizzare alcuni milioni di immigrati che sono nella clandestinità.
Tra questi milioni di persone, il presidente ha scelto di raccontare brevemente una storia, quella di Astrid Silva.

Astrid Silva, citata da Obama
nel suo discorso dull’immigrazione

Astrid è stata portata in America quando aveva 4 anni. I suoi unici beni
erano una croce, la sua bambola, e la gonna svolazzante che aveva
addosso. Quando ha iniziato la scuola, non parlava inglese. Ha
recuperato leggendo i giornali e guardando la TV. E poi è diventata una
brava studentessa. Suo padre faceva il giardiniere, sua madre la domestica. Non hanno permesso ad Astrid di far domanda per iscriversi in un liceo e studiare tecnologia, non perché non le volessero bene, ma
perché avevano paura che si scoprisse il suo status di giovane senza
documenti. Astrid ha fatto domanda da sola, senza dirglielo, ed è
entrata lo stesso.
Ha vissuto a lungo nell’ombra, finché sua nonna, che la visitava ogni
anno dal Messico, è morta, e lei non è potuta andare al funerale per il rischio di essere scoperta e rimpatriata. In quel periodo ha
deciso di lottare per
cambiare la sua situazione e quella di altre persone come lei. Oggi è
una studentessa universitaria e sta studiando per la sua terza laurea. Siamo una nazione che butta fuori un immigrata speranzosa come Astrid?

C’è qualcosa di profondamente umano e anche di paradigmatico in questa storia: non è l’ideologia che serve ma l’incontro con l’altro, simile a noi, talvolta debole, spesso indifeso, comunque prossimo.
Mi viene da pensare – e da sperare – che anche i quartieri talora respingenti delle nostre città possono imparare da questo discorso, dalla decisione di Obama e dalla storia di Astrid. Anche se Tor Sapienza non è a Washington e da noi si parla poco l’inglese.

Paolo Sassi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *