FATTI

Aldo Moro, tragedia irrisolta

Il 16 marzo del 1978 – quasi quarant’anni or sono – Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse, mentre i cinque uomini della sua scorta erano impietosamente assassinati. Moro verrà ucciso – dopo un sequestro agonico che resta tra i momenti più drammatici della storia della Repubblica – il successivo 9 maggio, e il suo corpo fatto ritrovare dai brigatisti in una Renault 4 parcheggiata nel centro di Roma, tra la sede della DC e quella del PCI. È quella che Agostino Giovagnoli ha definito – in un importante libro pubblicato nel 2005 – una “tragedia repubblicana“.
Col trascorrere del tempo, molti hanno creduto che i diversi lati oscuri di quella vicenda sarebbero stati definitivamente disvelati. Tuttavia, così non è avvenuto.
Sono stati celebrati ormai cinque processi, senza contare il lavoro delle commissioni parlamentari, che per molti anni si sono sforzate di approdare a qualche conclusione e da ultimo – sotto la presidenza di Giuseppe Fioroni, in questa legislatura – stanno tentando di collocare le frammentarie novità intervenute su quei drammatici avvenimenti.
Nel frattempo, la letteratura sul caso Moro si è fatta per molti versi sterminata e difficilmente dominabile: dalle prime riflessioni suggestive e letterarie di Leonardo Sciascia – L’affaire Moro – a quelle più complottistiche di Sergio Flamigni, da La tela del ragno in poi; dalla lettura storico-politica di Miguel Gotor – che ha studiato le lettere ed il memoriale della prigionia – fino alla memorialistica più o meno improbabile degli stessi brigatisti, che hanno tuttavia più taciuto che svelato. Per non parlare della filmografia, dal primo Il caso Moro del 1986 a Buongiorno notte del 2003, per non citare che i principali.
In una tale ridda di interpretazioni e letture, è difficile sfuggire alla suggestione che qualche fatto o documento finora totalmente sconosciuto possa invece consentirci una comprensione inedita di quella vicenda: è il caso che in questi giorni ha nuovamente riacceso qualche riflettore per via delle audiocassette “ritrovate” (o smarrite, come parrebbe per una di esse), o dell’ennesima audizione (probabilmente la settima) di Antonello Mennini, supposto confessore di Moro nella “prigione del popolo”.
Sembra difficile, tuttavia, come ha osservato Andrea Riccardi sul Corriere della sera, che «queste testimonianze [siano] in grado di illuminare le zone d’ombra di quei giorni drammatici. È invece il compito alla ricerca storica».
Al di là della dialettica tra luci ed ombre, mi sembra infatti purtroppo evidente come molte difficoltà del presente politico del nostro paese scaturiscano anche dalla mancata comprensione della cesura che l’assassinio di Moro ha generato nella storia politica nazionale: come osservava Giovagnoli,

«[n]ella generazione di Moro era ancora diffusa la fiducia nella possibilità di conciliare valori morali e scelte politiche, spinte ideali e valutazioni realistiche, nella convinzione di un orientamento complessivamente positivo della storia verso un futuro migliore […] A distanza, la sua traumatica scomparsa sembra aver anticipato il tramonto di un modo di intendere la nazione, di praticare la politica e di guardare il mondo».

Paolo Sassi 

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