FATTI

Se un papa rilegge la storia …

Si è concluso da qualche giorno il viaggio che papa Francesco ha effettuato nell’America centrosettentrionale, a Cuba e negli Stati Uniti.
Un viaggio che ha catalizzato l’attenzione di milioni di credenti e non, che ha suscitato numerosissimi commenti da parte degli osservatori, che è stato “storico” sotto diversi punti di vista.
Come ha scritto Furio Colombo, Jorge Mario Bergoglio si è rivelato ancor più un “uomo [che] ha qualcosa da dire, [un] leader che sta attraversando un’epoca e il mondo”.
Non ci sarebbe molto da aggiungere a quanto già detto sul valore dei gesti e delle parole che il pontefice ha compiuto e pronunciato all’Avana, a Washington, a New York, a Philadelphia. 

Mi piace solo riflettere brevemente sulla capacità di papa Francesco di cogliere gli snodi storici dell’itinerario di ciascun popolo, di rileggerli in maniera spirituale, quasi volesse non tanto appropriarsene, bensì restituirli per certi versi purificati a una visione che sia insieme umana e cristiana.
A Cuba – l’isola che è stata icona globale del cambiamento e del riscatto degli oppressi – Bergoglio ha invitato a fare la rivoluzione. Quella del Vangelo, però: “Torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. La nostra rivoluzione passa attraverso la tenerezza, attraverso la gioia che diventa sempre prossimità, che si fa compassione e ci porta a coinvolgerci, per servire, nella vita degli altri”.
Negli Stati Uniti – la terra della libertà e del sogno, della pienezza e del “perseguimento della felicità” (Dichiarazione di Indipendenza, 1776) – ha guardato a chi oggi vorrebbe gli/le fosse riconosciuto quel diritto inalienabile alla vita e alla speranza, ai condannati a morte, agli immigrati. “Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri”, ha detto il discendente di una famiglia di emigrati italiani. Ma è bellissimo che lo abbia detto in inglese: “We, the people”, come nel preambolo della Costituzione del 1787. 
“Consideriamo queste verità come per sé evidenti, cioè che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”, avevano scritto i Padri Fondatori. Francesco ha invitato i loro successori a crederci veramente, a non scegliere la chiusura dei muri, ad abolire la pena di morte.
Nel papa convive una storia di generazioni, quella Chiesa che seppe costruire le basiliche utilizzando le colonne degli antichi templi pagani dopo aver trionfato nella città signora del mondo, che volle edificare le cattedrali barocche mesoamericane con le pietre delle piramidi sulle quali si celebravano i sacrifici umani. Ma anche l’eredità gesuita dei poco conosciuti eroi delle reducciones, che sapevano dare dignità alla vita degli indios, di Matteo Ricci che riconosceva la grandezza e la profondità della civiltà cinese. 
In lui, e nella sua concezione della globalizzazione come un poliedro, che rappresenta tutti, che dà spazio a tutti, continua quel filo rosso che parte da Paolo ad Atene, che rilegge la storia del Dio ignoto agli stessi Ateniesi, che ai Tessalonicesi scrive “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono”, giungendo fino all’oggi, testimone dopo testimone (e tra questi mi piace citare il patriarca di Costantinopoli, Athenagoras, che diceva “tutti i popoli sono buoni)”.
Sì c’è del buono da riscoprire nella storia di ognuno e di ogni popolo, da far emergere, da condividere, su ogni faccia di quel grande, prezioso poliedro che è il pianeta che abitiamo.

Francesco De Palma
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