FATTI

Africa. Tra speranze e timori

L’ultimo numero della Rivista di Geopolitica Limes riaccende i riflettori sull’Africa, un continente troppo spesso dimenticato. Anche dalla storia. Dopo la loro emancipazione dal dominio europeo, gli africani più volte hanno dovuto affermare l’esistenza di una storia dell’Africa totalmente africana, sottolineando che le vicende dell’Africa non iniziano con i famosi viaggi di esplorazione europei del tardo medioevo e non si caratterizzano soltanto in quelle maledizioni che sono state la tratta negriera e il colonialismo imperialista. Non siamo quindi dinanzi a un continente senza storia, senza civiltà, ai margini delle vicende mondiali con l’eccezione dell’Egitto e della altre terre affacciate sul Mar Mediterraneo divenute prima romane, poi bizantine e infine islamiche.
Eppure – avverte giustamente Mario Giro – l’Africa costituisce la nostra nuova frontiera, non solo perché le nostre frontiere si sono allungate, soprattutto a sud, vista l’instabilità assai diffusa nella sponda meridionale e l’aumento dei flussi migratori. L’Africa può rappresentare anche la nuova frontiera degli investimenti delle imprese italiane, interessate a inserirsi pienamente nei mercati del continente africano. Questa priorità consentirebbe di restituire un ruolo alla nostra diplomazia al fine di far crescere l’internazionalizzazione del nostro paese. L’Italia potrebbe, inoltre, contribuire a formare una classe intermedia di tecnici e operativi che sia utile al continente, anche attraverso la cooperazione internazionale come insegna la preziosa esperienza del programma DREAM contro l’Aids, gestito da tecnici e attivisti africani grazie alla Comunità di Sant’Egidio: un significativo esempio di scambio paritario di know-how e di tecnologie.
E’ evidente che il continente ha un urgente bisogno di istituzioni statali forti. L’Europa e l’Italia possono fare molto per aiutare l’Africa a costruire la sua democrazia. Siamo abituati a leggere cronache che ci riferiscono di episodi di violente contestazioni e di forti instabilità politiche a causa di richieste di modifiche della Costituzione – per aumentare il numero dei mandati presidenziali – da parte di presidenti non disposti a lasciare il potere. Occorre evidenziare l’aspetto positivo di queste vicende: parti importanti delle società civili africane non accettano la conservazione indefinita degli autocrati. Non mancano i conflitti e i disordini che attestano che gli africani sanno quello che vogliono. Si veda il recente caso del Burkina Faso: Compaoré è stato costretto a cedere il potere e – dopo una transizione non propriamente tranquilla – si sono tenute elezioni presidenziali. Ci sono state elezioni presidenziali recentemente anche nella Repubblica Centrafricana, un esempio di stato fallito che sta cercando di riemergere, anche grazie alla visita del scorso novembre di Papa Francesco che proprio a Bangui ha scelto di aprire l’Anno Santo della misericordia.
Il rafforzamento della democrazia contestualmente può favorire lo sviluppo del continente africano. L’Africa – sottolinea Mario Giro – può entrare a pieno titolo nella globalizzazione attraverso la modernizzazione dell’agricoltura, divenendo da terra di emigrazione a meta di immigrazione. Ci sono, infatti, milioni di ettari incolti, sui quali hanno puntato gli occhi diversi paesi extra-africani da cui il fenomeno del land gabbing. Occorre ricordare che l’Africa sottopopolata e non ci sarebbe bisogno di emigrare se non ci fossero le guerre, le pandemie e l’assenza di democrazia. A ciò si aggiunge che spesso gli stati non hanno la forza di controllare tutto il loro territorio. Si formano quindi dei vuoti, dei luoghi di “non-diritto” che si riempiono di ribellioni armate con il pericolo di saldature con il jihadismo. La stesse origini di Boko Haram partono da ragioni endogene. L’obiettivo di Boko Haram non è solo quello di scatenare uno scontro tra la civiltà occidentale e quella islamica, ma anche di provocare l’implosione degli stati ereditati dal periodo coloniale. Non a caso, in questi anni Boko Haram ha ucciso più musulmani che cristiani.
Certamente viviamo in un periodo caratterizzato da “nuova migrazione di popoli”  in cui gran parte dell’umanità, soprattutto più povera e disperata, conosce la dimensione della precarietà e dell’incertezza; un tempo in cui le speranze di pacificazione tra i popoli sperimentano improvvise accelerazioni, ma anche tragiche sconfessioni dovute al riemergere di conflitti a lungo sopiti o all’esplosione di nuovi, o alla fragilità e parzialità stesse degli equilibri e delle “paci” raggiunti . Un tempo di risorgenti particolarismi e chiusure, con tutte le esclusioni che ne derivano. Tuttavia, siamo pienamente immersi in una stagione in cui la consapevolezza dell’intreccio delle relazioni a livello planetario suscita motivazioni e istanze di unità e cooperazione sempre più allargate . Come intuì il presidente senegalese Léopold Sedar Sénghor – poeta e letterato oltre che politico, inventore della negritude, l’espressione tipica del meticciato tra cultura francoeuropea e africana – che oltre cinquanta anni fa lanciò l’idea di Euroafrica, facendo riferimento a una visione di complementareità dei due continenti, a partire dalla cultura . Eurafrica è una visione – sottolinea Andrea Riccardi – in cui collocare le diverse identità nazionali europee e africane: “Eurafrica vuole essere una politica, ma anche un insieme di sentimenti e di idee tra mondi che si scoprono vicini” . E’ una visione evocatrice di sentimenti di comunanza, che offre “un quadro di dignitosa reciprocità all’interesse con cui gli africani guardano all’Europa”. Per dare forza a questa visione occorre effettuare scelte politiche che sviluppino un sentimento e una visione euroafricana in una prospettiva di coinvolgimento dei paesi e delle loro società civili. In tal senso, è necessario favorire e sviluppare i contatti, le relazioni tra società e società, facilitando i trasferimenti di risorse e sostegno e incrementando un sistema di solidarietà e reciprocità.

Antonio Salvati

Marco Peroni
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