FATTI

Cinquant’anni dopo. Guccini ad Auschwitz insieme a Zuppi

La copertina di Folk beat n. 1, 1967.

Quando compose quella che sarebbe diventata (giustamente) una delle sue canzoni più famose, Francesco Guccini aveva poco più di vent’anni. Auschwitz venne pubblicata dall’Equipe 84 come retro del 45 giri dal titolo Bang Bang, nel 1966. Guccini non era ancora iscritto alla SIAE e perciò – non potendo firmare in proprio – la canzone uscì a nome di Maurizio Vandelli e Lunero, pseudonimo del musicista Iller Pattacini. Esattamente cinquant’anni fa.

Guccini la inserì poi nel suo primo album, Folk beat n. 1, l’anno successivo, e ne diventerà definitivamente autore a pieno titolo solo trent’anni dopo, per decisione del tribunale.

Guccini e Zuppi in partenza

Racconta Guccini a Massimo Cotto nel bel libro Un altro giorno è andato come – in quel lontano 1967 – uno dei tecnici del suono della sala di incisione

«dopo aver ascoltato Auschwitz […] disse: “Ma a lei piacciono davvero queste canzoni?” Risposi timidamente di sì, che ci credevo.”Ascolti me, cambi mestiere oppure se proprio vuole ostinarsi a cantare, cambi genere…».

Guccini non seguì – e meno male! – l’insipiente consiglio di quel tecnico; non era però mai stato sul luogo che pure aveva così bene evocato e solo ieri, con uno speciale treno della memoria organizzato dai sindacati per un folto gruppo di studenti, è partito con destinazione Auschwitz, assieme ad un compagno d’eccezione, il nuovo vescovo di Bologna Matteo Zuppi. Che appena arrivato a in città, lo scorso mese di dicembre, non aveva nascosto – assieme al suo personale apprezzamento per il canzoniere gucciniano – il desiderio di incontrarlo.

Le cronache di ieri li hanno così infine ritratti insieme, lungo il binario della stazione, circondati dai ragazzi e un po’ presi d’assalto dai giornalisti, che li hanno interrogati sul significato di questo loro viaggio.
I due non si sono sottratti alle domande, e mentre Guccini rifletteva sul dramma contemporaneo dei profughi alle frontiere dell’Europa, Zuppi evocava Primo Levi – ed il suo I sommersi e i salvati – aggiungendo che forse, come recita la Canzone del bambino nel vento, dobbiamo ancora tutti imparare: a vivere senza ammazzare, in attesa che si fermi il vento inquietante del male.
Il viaggio della memoria ad Auschwitz, per chi l’ha compiuto, non avviene senza lasciare traccia. Chi ha passeggiato per i viali del campo di Birkenau, tra le baracche ancora in piedi ed il filo spinato, passando il varco da cui entravano i treni della deportazione verso i forni dell’annientamento, avverte inquietante la presenza di quei milioni di esseri umani annientati dalla follia nazista,

«in polvere, qui nel vento».

Ha scritto Ferdinando Camon:

«Auschwitz-Birkenau è in pianura, il vento la spazza sempre. Lì son morti […] a centinaia di migliaia. Nel vento li senti passarti accanto, così tanti che sono dappertutto. Se li senti una volta, li sentirai sempre. Loro vogliono che tu li senta, e lo dica a tutti. E quel che loro vogliono è giusto».

Da questa visita della memoria dovrebbe scaturire un film documentario, che mi auguro non sia troppo “sacrificato” dall’infortunio occorso oggi a Francesco Guccini in terra polacca: questo viaggio dell’artista pavanese con Matteo Zuppi, nel luogo emblematico del dramma della Shoah, ha saputo evocare domande sul passato ed aspettative per il futuro che trapassano i ruoli ed i simboli e che sono – in fondo – la speranza umana che un giorno “quel” vento

«si poserà».

Paolo Sassi 

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