FATTI

“Il cinema è l’artiglieria pesante dell’arte”. La breve parabola dell’industria filmica di stato in Albania dal 1952 al 1991.

Xhanfize Keko, la prima donna regista in Albania  (Foto di Petrit Kumi).

Le strade del centro di Tirana sono affollate di gente in questi giorni di Natale.
Luci, auto, folla, caos.
E’ il normale traffico natalizio endemico in una qualsiasi città europea medio-grande.
Un certo dinamismo si è impossessato della capitale albanese.
Le sue continue trasformazioni, a volte un pò caotiche, la stanno comunque rendendo interessante e attrattiva.
La nuova piazza Skanderbeg pedonalizzata (in questi giorni invasa dalle bancarelle e dalle giostre del mercatino natalizio), i grattacieli che sorgono un pò ovunque nel centro, i lavori che stanno ultimando quella che sarà la moschea più grande dei Balcani (sulle rive del Lana, a poche centinaia di metri dalla cattedrale cattolica, finanziata dalla Turchia di Erdogan), il nuovo boulevard che attraverserà tutta la città, il vecchio bazar ristrutturato (che poi si chiama “Pazari i Ri”, cioè “Nuovo Mercato”), i complessi museali riguardanti la storia contemporanea del paese appena inaugurati… un continuo “restyling” che non vuole fermarsi.
La “nuova Tirana” dovrà diventare il “biglietto da visita” in vista o, più realisticamente, nella speranza di un futuro ingresso del Paese delle Aquile nell’Unione Europea.
Mi dirigo nella periferia della città, verso le pendici del monte Dajti.
Tirana in modo caotico è arrivata fino a qui.
Una valanga di cemento armato si è riversata attorno alla vecchia città.

Cinema “Majestik” a Korça.

La grigia e sonnolenta cittadina degli anni ’90, quella “restituita al mondo” dopo il lungo isolamento del regime comunista, è oramai una metropoli soffocata dal traffico e dai clacson delle auto che affollano il labirinto di strade attorno ai quartieri sorti, come funghi, senza nessun criterio che non sia quello dello sfruttamento intensivo di tutti gli spazi possibili.
Arrivo al “Kinostudio”, zona che prende il nome dal palazzo costruito, nel 1952, per accogliere la “Cinecittà Albanese”. Come a Roma, appunto, il quartiere prende il nome dalla sede degli studi cinematografici, costruita lì dove c’era la campagna.
Si può dire con assoluta certezza che il cinema albanese nacque con il regime di Enver Hoxha.
“Il compagno Enver”, pur camminando su un altro versante ideologico, rubò varie idee al Fascismo (d’altronde respirò anche quella cultura durante l’occupazione italiana).
L’edificazione di una “città del cinema” di stato, come fece Mussolini a Roma, fu una delle prime realizzazioni del suo Regime.
D’altronde il dittatore albanese, originario di Argirocastro, si era formato a Korça, cittadina del sud,  dove frequentò gli studi superiori,  in un ambiente dove l’influenza della cultura francese ed europea era molto forte. Stava terminando il liceo quando, molto probabilmente, assistette, nel 1927, all’inagurazione di uno dei primi cinema dei Balcani, il mitico “Majestik” (tutt’oggi funzionante), sala di 300 posti, costruita con fondi provenienti da imprenditori originari della città, immigrati negli Stati Uniti. Lì, guardando i films di maggior successo dell’epoca, iniziò a rendersi conto del potenziale attrattivo del cinema e della sua forza nel diffondere mode, cultura e, soprattutto, nel formare le coscienze. Questa consapevolezza sicuramente maturò negli anni che vanno dal 1930 al 1936, periodo dei suoi soggiorni europei a Montpellier e a Bruxelles, dove si nutrì delle pellicole francesi, delle quali restò sempre un appassionato cultore.
Il Kinostudio “Sqhiperia e Re” (“La Nuova Albania”), nacque nel 1952, pochi anni dopo la salita al potere di Enver Hoxha.
Allora era fuori la città.

Il “Kinostudio”

Il palazzo, sede principale del complesso, fu costruito in quello stile neoclassico sovietico allora in voga, dato il forte e viscerale legame dell’Albania con la Russia Stalinista.
Al Kinostudio, dal 1953 al 1984 (anno precedente la morte di Hoxha), furono girati ben 174 film. Il massimo della produzione annuale si raggiunse negli anni ’80 una media di 14 film l’anno.
I film realizzati conoscevano un’importante diffusione grazie alla capillare rete (oltre 250) di sale cinematografiche (molte di queste realizzate dopo il 1967, anno in cui fu scritta la nuova costituzione che proclamava il paese “stato ateo”, all’interno degli edifici religiosi chiusi al culto).
Il regime albanese fece sue le parole di Lenin “Il cinema è l’artiglieria pesante dell’arte” e pianificò rigidamente le attività del Kinostudio, rendendo l’industria cinematografica uno tra i suoi più forti strumenti di propaganda.
Lavorare al Kinostudio era, sia per i registi, sia per gli attori, sia per le maestranze, un grande privilegio perchè, seppur in un ambiente culturale pesantemente condizionato dalle rigide direttive e dalla censura del regime, si respirava un relativo clima di tolleranza che dava spazio alle  sperimentazioni delle

Locandina di “Faccia a Faccia”, film del 1979

avanguardie artistiche.
Il regime, pur vietando tutti i contenuti estranei alla propaganda del partito, favoriva la maturazione artistica dei suoi registi e, fino all’inizio degli anni ’60, prima della rottura con Mosca, dopo la svolta di Krusciov rispetto allo stalinismo, inviava regolarmente i suoi registi a studiare e a specializzzarsi nell’Est Europa.
Nei fatti il cinema dell’Est, nella variante realista sovietica, assieme al neorealismo italiano (da sempre paese di riferimento affettivo per i cittadini del “Paese delle Aquile”) furono le correnti artistiche che maggiormente influenzarono i registi albanesi.

Il primo cineasta a rientrare in patria dalla Cecoslovacchia fu Hysen Hakani. Nel 1957 realizzò il primo cortometraggio Fëmijët e saj (I suoi bambini) in cui venivano raccontate le condizioni di vita in un villaggio albanese in uno stile strettamente realistico. Il primo lungometraggio albanese, Tana, venne invece realizzato lʼanno successivo da Kristaq Dhamo, regista che si era formato a Budapest. Unʼaltra pellicola di grande successo fu Debatiku (1961), di Hysen Hakani, dedicato agli eventi della seconda guerra mondiale e in particolare al ruolo svolto dai bambini di Tirana. A sostegno della resistenza antifascista. Piro Milkani e Gëzim Erebara, due giovani registi che avevano studiato in Cecoslovacchia, girarono insieme nel 1967 il film Ngadhënjim mbivdekjen (Trionfo sulla morte). Anche questo film prendeva spunto dagli eventi della lotta antifascista, basandosi sulle gesta di due giovanissime partigiane albanesi, giustiziate dai nazisti. Questo tipo di produzioni veniva naturalmente molto apprezzato dalla critica del tempo, in ogni caso si trattava di passi importanti nel percorso di maturazione del cinema albanese. Se per i primi anni si può parlare di un vero e proprio momento di fondazione della cinematografia, il decennio 1969-1979 viene considerato invece il periodo classico del film albanese. Questa fase vide tuttavia anche il rafforzamento degli strumenti della censura: cʼera spazio solamente per le interpretazioni ufficiali, imposte dal partito attraverso le proprie istituzioni” (Chiodi-Dioli, “Il mestiere del cinema nei Balcani”).
Bisogna sottolineare che il rigido controllo sulle coscienze imposto dal regime, fece si che non vi fu un vero e proprio bisogno di “particolari uffici per la censura”. Le direttive del Partito-Stato erano talmente interiorizzate dai registi e dagli sceneggiatori, che nessuno osava rappresentare contenuti estranei alla propaganda. 
Ogni film che veniva prodotto, prima di essere messo in circolazione, era visionato da una serie di commisioni che, in linea gerarchica, arrivavano fino ad Enver Hoxha in persona, al quale spettava l’ultima parola, sull’opportunità, o meno, di mettere in circolazione una data pellicola. Le critiche erano sempre però rivolte a particolari secondari dei films, i quali, per le ragioni già espresse, nella loro globalità erano sempre dentro l’ortodossia ideologica del partito.
In genere i films avevano un compito prettamente pedagogico e seguivano uno schema standard:  “Per quanto riguarda le tematiche, allʼepoca, si accentuavano gli aspetti propagandistici per il ‹rafforzamento ideologico› delle masse. Solo secondariamente si lavorava per creare un contesto artistico credibile, rimanendo allʼinterno dei limiti prefissati. Venivano preferite la tematica bellica e lʼattualità, al centro della quale doveva essere posta la famiglia sana dal punto di vista ideologico. Il personaggio positivo era sempre un comunista, magari redento dal partito dopo un errore del passato, che alla fine, come imposto dalle regole del realismo socialista, trionfava sempre” (Artan Minarolli, regista e direttore dell’Archivio di Stato del Film Albanese).
Locandina de “I suoni della guerra”, film del 1976
L’industria cinematografica albanese, così legata al Partito-Stato, seguì nel suo sviluppo e nelle produzioni, le vicende del regime di Enver Hoxha. Così,  se al tempo del legame con la Russia di Stalin, prevaleva la produzione di pellicole ad indirizzo storico, al tempo della rottura con la Russia e l’alleanza con la Cina di Mao-tse-Tung, prevalse la produzione di film riguardanti i temi ideologici e i miti fondativi del regime, soprattutto per quel che riguardava la Resistenza al Nazi-Fascismo, intesa come la lotta contro i nemici dell’Albania. Negli anni ’80, dopo la rottura con la Cina di deng-Xiao-Ping accusato di “revisionismo”, l’Albania accentuò il suo isolamento fino alla totale chiusura al mondo esterno; anche il cinema si ripiegò su se stesso e finì per concentrarsi sulle tematiche sociali legate alla vita quotidiana. Prevalsero films narranti storie che rappresentavano i problemi sociali e persone che lottavano per il bene comune: “Ad esempio il film Rrugë të bardha (Strade bianche) fu ispirato dalla vicenda di un semplice operaio che si era sacrificato nel lavorare al collegamento telefonico tra gente che viveva in posti proibitivi. Nei film si cercava di glorificare certi ideali, il realismo socialista aveva in comune con le pellicole americane lʼhappy end: anche in caso di morte dellʼeroe, le sue idee sopravvivevano. Il realismo socialista, ereditato da Zhdanov, non lasciava spazio a tematiche negative, cʼera sempre un raggio di ottimismo” (Piro Milkani, regista).
Con la fine del regime, all’inizio degli anni ’90, l’industria nazionale del cinema albanese cessò di esistere. Alcuni dei suoi migliori registi più giovani continuarono e continuano a lavorare, o per la televisione o realizzando qualche film, finanziato però da produttori stranieri.
Osservo attentamente il palazzo del Kinostudio.
E’ oramai una struttura desueta e malinconica. Non si usa più per fare il cinema. D’altronde un film prodotto in Albania oggi non avrebbe un grande mercato. Le sale cinematografiche nel paese si contano sulle dita di una mano. Proiettano solo film commerciali stranieri, spesso di qualità media o bassa.
E così questo palazzone neoclassico, immerso nel caos di Tirana, appare come un ricordo del passato, di un mondo che non c’è più e di cui non si ha nessun rimpianto. 
Ma, nella testa dei tiranesi più anziani, nonostante la durezza del regime di Enver Hoxha, ci sono dei piccoli rigurgiti repressi di nostalgia, di un tempo dove forse tutto era più semplice e organizzato, in cui era chiaro quello che si doveva o non si doveva fare, dove si lavorava duro ma, alla fine della settimana, ci si trovava di fronte ad un grande schermo, a perdersi un pò, lasciando cadere le preoccupazioni della vita, in quel vortice di effimere illusioni rappresentato dalla magia del cinema.
Francesco Casarelli
Le citazioni contenute nell’articolo sono tratte da: Chiodi-Dioli “Il mestiere del Cinema nei Balcani”

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