FATTI

Roma, via Mario Fani, 16 marzo 1978.

(Foto: Corriere della Sera)
Via Mario Fani è lunga poche centinaia di metri e attraversa una zona residenziale di Monte Mario, la collinetta che domina Roma nella sua parte nord-ovest.
E’ una zona tranquilla, silenziosa, con pochi esercizi commerciali, dove, normalmente, non succede mai niente di eclatante.
Via Mario Fani si trova vicino casa mia.
Vivo in questa zona fin dal 1970. Da ragazzo ho svolto qualche piccolo lavoretto in un residence che affacciava proprio lì.
Nessuno di noi, giovani o anziani di allora, avrebbe immaginato che la storia, quella importante, sarebbe passata, 40 anni fa, per questa strada secondaria della Capitale.
Me lo ricordo bene, come fosse ieri, quel maledetto 16 marzo del 1978.
Ero a scuola. Frequentavo il primo superiore al “Max Planck” di via Vallombrosa (ora non c’è più, al suo posto è stata aperta da tempo una scuola elementare).
Stavamo facendo lezione nell’ora di matematica, quando, intorno alle 9.30, si aprì la porta dell’aula ed entrò in classe trafelato il nostro professore di lettere. Non mi ricordo il suo nome. Ricordo però il suo aspetto e come si vestiva: era un trentenne, barba e capelli lunghi, occhiali, maglione a collo alto, eskimo e borsa di tolfa. Correva voce che fosse un militante del PCI e lui, in classe, non faceva mistero delle sue simpatie politiche di sinistra. A noi studenti piaceva per il suo modo un pò “alternativo” di esprimersi che rendeva interessanti le sue lezioni.
Quando irruppe nell’aula aveva il viso sconvolto. Pronunciò solo queste parole: “Le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro… Hanno massacrato i cinque agenti della sua scorta…”.
Non c’erano internet e nemmeno i telefoni cellulari, eppure la notizia si era diffusa subito, quasi in tempo reale.
Il gelo scese nella classe. Io e i miei compagni ci guardammo senza dire nulla. In tutti noi vi fu la sensazione che qualcosa di tremendo stava accadendo al Paese, anche se non eravamo assolutamente in grado di valutare la portata di questo tragico evento.
Il professore di matematica e quello di lettere uscirono dall’aula. Tornarono dopo una ventina di minuti. Ci dissero: “Il Preside, vista la gravità di quanto accaduto, ha deciso di sospendere per oggi le lezioni. La scuola chiude. Potete uscire”.
Riponemmo i libri e ci alzammo.
Nei corridoi, seppur affollati dagli studenti che si avviavano verso l’uscita, c’era un’inusuale, grande ed inquietante silenzio.
Tornai a casa, lasciai velocemente la borsa con i libri e mi recai immediatamente a via Mario Fani. Erano pochi minuti a piedi.
Per noi di Monte Mario, Aldo Moro era una presenza a cui eravamo abituati. Viveva con la famiglia in un appartamento in Via del Forte Trionfale. Tutti sapevano che quella era “la casa di Moro”. Spesso lo si vedeva passare per la via Trionfale con la sua Fiat 130, seguita dall’auto della scorta, un’Alfetta. La moglie di Moro, Eleonora Chiavarelli (“Noretta”, come la chiamava il marito), faceva la catechista nella Parrocchia di San Francesco a piazza Montegaudio, che, per noi ragazzi, tra polisportiva, scout e corsi di preparazione per comunioni e cresime, rappresentava un importante luogo di aggregazione.
Giunsi a via Fani.
Ricordo, la confusione, i volti sgomenti della gente che era accorsa per vedere cosa fosse successo, il ragazzo che lavorava all’edicola dei giornali ubicata vicino a “dove avevano sparato” che sosteneva, sconvolto, di aver visto tutte le fasi dell’agguato terrorista.
Vidi le macchine di Moro e della scorta con i vetri rotti e le lamiere forate dai proiettili.
Vidi i bossoli sull’asfalto, contornati dai segni del gessetto bianco. Mi colpirono quei cerchietti bianchi e notai che erano tanti… troppi. Lo stesso tratto bianco del gessetto formava, sempre sull’asfalto, la sagoma di un corpo. Seppi che quello era il punto dove era caduto, crivellato dai colpi delle armi da fuoco dei brigatisti, l’agente Raffaele Iozzino che aveva tentato un’inutile reazione. In seguito imparai a memoria anche i nomi degli altri quattro agenti della scorta che giacevano uccisi nelle due macchine: Domenico Ricci, Giulio Rivera, Oreste Leonardi e Francesco Zizzi.
Ricordo poi il clima angoscioso delle settimane successive, la città piena di poliziotti, i posti di blocco, le pequisizioni, gli allucinanti titoli dei giornali, i tremendi comunicati dei terroristi, le lettere disperate di Moro, le sofferenze dei familiari dello statista e quelle degli agenti di scorta massacrati, fino al tragico epilogo del 9 maggio successivo: la Renault 4 rossa trovata a via Caetani con dentro, nel bagagliaio, un povero corpo senza vita.
Aldo Moro fu decisamente sfortunato.
Venne a trovarsi nel mezzo di uno di quegli incroci della storia dove tutto sembrava convergere nella direzione di quella “tempesta perfetta” che lo travolse: la “Guerra Fredda” al suo culmine in quel periodo, il movimentato clima poltico italiano, le ideologie pseudo-rivoluzionarie di chi lo identificava, in quanto presidente della Democrazia Cristiana, come il nemico principale da abbattere, le manovre di forze oscure che sembravano spingere affinchè non venisse liberato. Subì, da una parte, l’intransigenza delle maggiori forze politiche che rifiutarono ogni trattativa per salvarlo, dall’altra, la feroce stupidità dei suoi carcerieri i quali non si resero conto della vittoria politica che avrebbero ottenuto nel rilasciarlo vivo.
Eseguendo la condanna a morte dello statista democristiano, i brigatisti rossi, diedero il “fischio d’inizio” a quella parabola discendente che li condusse verso la loro fine.
La reazione dello Stato ci fu e si rivelò estremamente efficace.
Nel giro di pochi anni, il terrorismo politico fu estirpato dal Paese.
Dopo quarant’anni quando, di tanto in tanto, ascolto le interviste rilasciate ai media da alcuni “reduci” – oramai anziani e in piena decadenza fisica – ex-brigatisti rossi (reduci… ma di che? Forse solo di una pazzesca forma di allucinazione collettiva) che spiegano quanto accaduto con un ricorrente discorso che, più o meno, suona così: ”Eravamo in una guerra e in guerra non ci sono persone, ma obiettivi”… quando ascolto parole di questo tipo, penso a quanto sia eticamente e doverosamente giusto odiare senza riserve ogni violenza ed ogni guerra… E penso anche a ciò che ha prodotto in Italia la follia del terrorismo.
Le organizzazioni terroristiche di ogni colore politico, hanno infatti la responsabilità storica e morale, oltre ai danni e alle sofferenze che hanno arrecato a tanta gente, di aver causato, eliminando fisicamente alcuni tra gli esponenti delle forze migliori del Paese, un danno incalcolabile al progresso della nostra democrazia e della nostra cultura, finendo, paradossalmente, per essere complici di quelle forze reazionarie contro le quali pensavano di combattere.
Quello che siamo oggi – e sono in molti a pensarlo – trova sicuramente le proprie radici anche in ciò che accadde nei cosiddetti “Anni di Piombo”.
Francesco Casarelli

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