FATTI

Detenute e bambini in carcere: questioni irrisolte

I due bimbi morti
nel carcere di Rebibbia – lanciati giù dalle scale da una madre detenuta malata,
georgiana di origine tedesca – riportano all’attenzione una questione mai
risolta del tutto: è giusto, è opportuno, che le detenute con figli piccoli
scontino la pena in carcere? Oppure: è giusto, è opportuno, che dei bambini
crescano in prigione? La recente tragedia richiede una riflessione sulle
soluzioni diverse dal carcere per le madri con figli piccoli. Queste morti – ha
giustamente osservato Antonio Mattone sulle pagine del quotidiano napoletano Il
Mattino – racchiudono tutte le contraddizioni e i problemi della realtà
carceraria: la detenzione di tossicodipendenti, la difficile comunicazione con
gli stranieri, la scarsa attenzione a persone con problemi psichiatrici per cui
manca una vera e propria presa in carico. E soprattutto la presenza di minori
all’interno dei reparti detentivi.
Ci interessa
soffermarci sulla detenzione femminile che presenta delle sue peculiarità. Indubbiamente,
la criminalità e la detenzione femminile sono divenute materia di indagine e di
studio solo in tempi relativamente recenti. Tale attenzione è da mettere in
relazione con quanto è accaduto negli ultimi cinquant’anni. Infatti, le donne
sono diventate protagoniste del profondo cambiamento sociale che ha interessato
il nostro paese e che si è risolto nella approvazione di una serie di leggi a favore
della libertà e della emancipazione delle donne: dalla procreazione controllata
alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di
adulterio femminile, con il riconoscimento di una parità – in termini di
diritto di accesso a lavori prima esclusivi del mondo maschile e di parità di
retribuzione – che interessa ora l’intera sfera sociale. Malgrado la maggiore visibilità delle questioni
femminili, in ambito criminale e penitenziario si sono registrati scarsi mutamenti:
gli uomini restano ancora i protagonisti quasi esclusivi della realtà e della
scena carceraria e criminale. In altri termini, ha sostenuto T.Pitch “la criminalità, e così il carcere, sono
domini maschili ma mai esaminati come tali
”. E’ evidente come
all’emancipazione della donna nella vita civile e a un cambiamento della sua
posizione nella società occidentale, non sia seguito un cambiamento e
incremento della criminalità femminile.
La presenza
delle donne negli istituti penitenziari viene analizzata solitamente nel
confronto con la preponderante componente maschile. Gli sforzi di comprensione sembrano
concentrarsi più sul perché le donne siano poche, che non sulla realtà in sé.
Il fatto che le donne detenute siano meno rispetto agli uomini tende a far
considerare la condizione maschile come norma, riproducendo la subalternità
concettuale della donna, la sua assimilazione ad una generalità che non è
generale. Il numero delle detenute si attesta intorno al 5% delle presenze
complessive. Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria le donne detenute straniere presenti in
carcere al 31 gennaio 2010 erano 1225 (erano 938 al 31 agosto 2018) . Le donne complessive
presenti negli istituti di pena italiani al 31 gennaio 2010 erano 2.832 su un
totale di 65737 e dunque rappresentavano poco più del 4,25% della popolazione
detenuta maschile; al 31 agosto 2018 erano 2551 su un totale di 61686, poco
meno del 4,20%.
Forse anche a
causa dell’esiguità della percentuale di donne detenute, si riscontra
un’evidente difficoltà a elaborare accorgimenti organizzativi e offerte
riabilitative idonei a cogliere e valorizzare la specificità della popolazione
detenuta femminile. Ne deriva che molti dei problemi specifici, che sono legati
alla detenzione della donna, sono stati poco o male osservati e valutati. Negli
ultimi anni, la media della permanenza in carcere delle donne sta diventando
sempre più bassa, in quanto coinvolte anche loro in quel fenomeno di “porta
girevole” che è diventato il carcere, ossia una struttura che in breve tempo
tornerà ad ospitare nuovamente persone coinvolte in una pluralità di esperienze
devianti. Moltissime detenute sono straniere. Alcuni anni fa la Fadda, magistrato di
sorveglianza di Milano
, osservò giustamente che le detenute vivono il “il trauma della separazione dal contesto
familiare e sociale di riferimento e dunque spesso in condizione di sofferenza
psichica, anche senza fissa dimora, senza riferimenti esterni significativi,
che poco conoscono la lingua italiana, portatrici di una cultura di nomadismo o
tossicodipendenti e comunque con un livello di bassa scolarizzazione
”.
In virtù di
queste considerazioni – e tornando al dramma dei bambini in carcere – è
opportuno allargare e valorizzare l’esperienza delle case famiglia e degli Istituti a custodia
attenuata per madri con la prole al seguito (ICAM), istituiti grazie ad una
legge del 2011. Si tratta di strutture senza sbarre dove il personale non ha la
divisa e si vive in condizioni penitenziarie più aperte (anche se sono pur sempre
prigioni, dove si vive lo stress e le restrizioni proprie di un ambiente
piccolo e contenuto). Antonio Mattone nel suddetto articolo ha ricordato l’esperienza
dell’ICAM a Lauro di Nola: una realtà che per alcuni rappresenta un modello
positivo dove attualmente sono rinchiusi dodici minori. Una struttura, una volta riservata ai tossicodipendenti e apprezzata, oggi convertita ad ICAM con un dispendio di risorse decisamente eccessivo e discutibile. A Roma è aperta da più
di un anno la Casa di Leda, intitolata a Leda Colombini, partigiana,
sindacalista, parlamentare e soprattutto protagonista della battaglia per
ottenere una legge che evitasse ai bambini di finire in carcere con le madri.
Morta nel 2011 in seguito a un malore che l’aveva colpita nel carcere di Regina
Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato, l’ex
deputata del PCI aveva fondato A Roma
Insieme,
un’Associazione che ha come obiettivo quello che “nessun bambino varchi più la soglia di un
carcere”
. Mi piace ricordarla quando insieme agli amici della Comunità
di Sant’Egidio organizzava i cosiddetti “sabati di libertà”, consentendo ai bambini
di uscire dalle mura di Rebibbia femminile.
Antonio Salvati

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