FATTISGUARDI

Mafie di ieri e di oggi

I procuratori Giuseppe
Pignatone e Michele Prestipino nel loro volume Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi – presentato
recentemente alla Dante (con gli autori sono intervenuti Andrea Riccardi, Massimo Franco e Mario Monti) 
descrivono le caratteristiche e le trasformazioni delle organizzazioni
mafiose di cui si sono occupati nella loro lunghissima carriera. Prima di
approdare a Roma, dove si sono occupati delle recenti inchieste che hanno
coinvolto la capitale, hanno maturato una lunghissima esperienza da Palermo a
Reggio Calabria. Chi meglio di loro può indicarci il dna della mafia siciliana
e di quella calabrese. Il volume è ricco di descrizioni sulla struttura
organizzativa su cui entrambe si fondano, la ‘famiglia’ in cui si entra mediante
cerimonie solenni e, infine, il sistema di relazioni che le collegano a
soggetti esterni (imprenditori e manager, esponenti politici, uomini della
burocrazia, liberi professionisti). Viene delineato anche il processo di
“colonizzazione” che ha consentito alla criminalità organizzata di estendere i
suoi confini ben oltre la Sicilia e la Calabria, patria rispettivamente di Cosa
nostra della ’ndrangheta. Ma non tutte le mafie sono uguali, avvertono gli
autori. Conoscerle è il primo fondamentale passo per poterle sconfiggere.



Gli autori ci tengono a
sottolineare che gli ultimi trent’anni di indagini e processi hanno assicurato
un flusso di informazioni di grande rilievo ai fini della ricostruzione dei
modelli operativi adottati nel corso del tempo da Cosa nostra e dalla
’ndrangheta per esercitare il proprio potere criminale. Le mafie non sono
niente affatto invincibili. E dopo decenni di costante lotta dello Stato la
stessa percezione sta cambiando. Ripeteva spesso Giovanni Falcone che le mafie
«sono un fenomeno umano, che ha un inizio
e avrà una fine
». Ma per contrastarle, è fondamentale conoscerle a fondo,
per togliere il consenso ai boss, insieme alle ricchezze, E, soprattutto,
tenere alta la guardia. In ogni parte del Paese.
Ma – da romano – ho concentrato
la mia attenzione sull’analisi del modello criminale di Roma. Nella capitale le
cose sono più complesse, trovandoci di fronte al «proliferare di strutture criminali, costole di gruppi a matrice
camorristica, di ‘ndrine e famiglie mafiose che si sono radicate sul territorio
romano e vi esercitano il metodo mafioso, partendo dal controllo non solo di
piccole porzioni di territorio, ma in alternativa di settori di affari, ovvero
di pezzi di mercato
». Ed è questa la vera novità nell’evoluzione del
modello criminale tradizionale, al confronto ad esempio delle spartizioni,
territorialmente ben definite, tra mandamenti e famiglie di Cosa Nostra o tra
cosche di ‘ndrangheta.
Gli autori confidano di
essere stati più volte sottoposti alla domanda “c’è la mafia a Roma?”. Innanzitutto,
i due procuratori  ci spiegano cosa
s’intende per mafia:  «Non c’è dubbio che nell’immaginario
collettivo, anche degli addetti ai lavori, la mafia è solo quella tradizionale
delle regioni meridionali: Cosa nostra siciliana, ’ndrangheta calabrese e
camorra campana (e, in misura molto minore, Sacra corona unita pugliese). Non
solo, ma in quello stesso immaginario e nel convincimento implicito di ognuno
di noi, anche addetti ai lavori, un’associazione di tipo mafioso deve avere un
numero elevato di membri, un sistema rigoroso di regole, un controllo quasi
militare (di zone più o meno vaste) del territorio in cui opera, deve agire con
un uso continuo e manifesto, se non addirittura eclatante, della violenza. È in
altri termini la realtà – non solo l’immagine, purtroppo – delle mafie
tradizionali e in primo luogo della Cosa nostra corleonese, quella delle stragi
che hanno segnato la storia del nostro Paese
». Giuridicamente le cose sono
un po’ diverse. Infatti, «se è vero che
l’art. 416 bis del codice penale, che nel 1982 ha introdotto nel nostro
ordinamento il reato di associazione mafiosa, è stato redatto sulla base del
«modello» della mafia siciliana (allora la più pericolosa e quella meglio
conosciuta), studiato anche dal punto di vista sociologico, la norma scritta
dal legislatore va oltre quel «modello» e non prevede né un numero elevato di
associati (ne bastano tre), né un sistema di regole, né il controllo del
territorio; persino la disponibilità di armi non è un elemento essenziale ma solo
eventuale del reato, tanto da costituire una specifica aggravante. Del resto,
l’art. 416 bis c.p. si applica, fin dalla sua stesura originaria, «anche […]
alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della
forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a
quelli delle associazioni di tipo mafioso». È evidente che la quasi totalità
dei processi per mafia (rectius per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.) in
questi trentasei anni ha avuto per oggetto le mafie tradizionali. Ma la norma
del 1982 va oltre. Anzi, lo stesso legislatore ha avvalorato questa lettura più
ampia prevedendone, nel 2008, l’applicabilità anche alle mafie «straniere». È
chiaro infatti che le associazioni nigeriane, cinesi o dei Paesi dell’Est
europeo presenti in Italia non hanno le caratteristiche delle mafie
tradizionali che abbiamo prima indicato, eppure anch’esse possono essere
qualificate «di tipo mafioso» ai fini del diritto penale per esplicita
previsione normativa». «La corruzione resta il principale problema di Roma»,
ha
più volte detto Pignatone
. E la corruzione da tempo e sempre di più viene
utilizzata anche dalle mafie come strumento di infiltrazione, ricordano i due
magistrati, che si sono occupati del Mondo di Mezzo romano, accompagnati dalla
consapevolezza, che «l’idea di legare
indissolubilmente mafia e corruzione organizzata è falsa in punto di fatto ed è
estremamente pericolosa
».
Riccardi alla
presentazione alla Dante ha detto – raccogliendo il consenso dei due autori –
che le mafie si inseriscono come un paradossale connettivo in tessuti
disgregati, come quelli delle periferie, prive delle reti di una volta
(sindacati, partiti, forze extraparlamentari, parrocchie, etc.), alimentandosi
di consenso, offrendo percorsi rassicuranti e protezione. Manca un rapporto con
la periferia. Serve un processo di “rammendo”: città per città, comune per
comune, periferia per periferia, partendo dal basso. La nostra società ma anche
la vita politica hanno urgente necessità di connessioni reali. Riallacciare le
relazioni sociali è un’opera che in questo momento nessuno compie, un lavoro
che sembra troppo lento e inutile. Occorre un’iniziativa di connessione tra
mondi polarizzati che non si parlano, sia a livello sociale che politico, su
una base civica. Connettere per integrare. Ed è quanto fece don Pino Puglisi,
nel quartiere di Brancaccio a Palermo.
Antonio Salvati

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