FATTI

Corridoi umanitari. Alcune storie

Secondo un disperato bollettino dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nei primi due mesi del 2016 ad attraversare il Mediterraneo sono stati oltre 130.000 migranti. Molti di loro non ce l’hanno fatta: sono circa 4mila le persone morte nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. Mille di loro dalla Siria ce la faranno e circa 100 sono già arrivati grazie a uno straordinario progetto nato da un’alleanza inedita tra governo italiano, comunità di Sant’Egidio, Federazione delle chiese evangeliche e Tavola valdese.

Papa Francesco ha pubblicamente elogiato i corridoi umanitari. Il suo viaggio a Lampedusa del luglio 2013, risvegliò le coscienze di tanti sulla crisi umanitaria legata all’arrivo dei migranti sulle coste dell’Europa.  Ha pregato per essi alla fine della Via Crucis, recitando le significative parole: “O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nel nostro Mediterraneo e nel mar Egeo divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata”. I suoi ripetuti appelli hanno aiutato a realizzare frutti preziosi, grazie agli sforzi generosi di tanti cristiani e non commossisi di fronte all’entità di tali tragedie. Alcune storie dei migranti giunti in Italia attraverso i corridoi umanitari ci aiutano a capire da vicino il loro dramma.
Tra di loro Mariam, 71 anni, che parla solo assiro. In Siria era rimasta sola, tutti i suoi parenti sono emigrati. Una sua nipote ora vive in Svezia. Proviene da Al Hasaka, città nel nord della Siria abitata in prevalenza da curdi. Da lì è dovuta scappare all’arrivo del Daesh per evitare di essere uccisa o rapita. Oggi vive insieme a una coppia di anziani come lei che parlano solo italiano. Vivono a Trastevere, quartiere della vecchia Roma. Ci si comprende per lo più a gesti. Ma una delle anziane ospitanti afferma di comprendere tutto: “E’ come se ci conoscessimo da sempre”. L’amore e l’affetto fanno miracoli.
Tra i tanti i bambini c’è Diya. Ha 10 anni ed è nato a Homs, la città che non esiste più. Diya ha bisogno di cure. È rimasto gravemente ferito nell’esplosione di una bomba mentre giocava a pallone davanti casa: per salvargli la vita, in un ospedale di fortuna gli hanno amputato una gamba. Tuttavia non ha smesso di ridere, giocare, correre con le sue stampelle. Con la sua famiglia andrà per qualche tempo in Emilia Romagna, al centro Inail di Vigorso di Budrio, dove Diya verrà curato e potrà avere una protesi. «Una nuova gamba», così la chiama lui mentre aspetta con impazienza di partire. Finite le cure, comincerà la sua infanzia italiana ad Aprilia, vicino Roma.
Badee’ah, ha 53 anni e a Tel Abbas, il campo profughi in Libano dal quale proviene, tutti la chiamavano ‘mamma’. Perché quando c’era un problema o un consiglio da chiedere, andavano da lei. E’ fuggita da Homs insieme ai parenti – in tutto 7 famiglie – raggiungendo il vicino Libano.  Lì ha conosciuto alcuni amici  della comunità Papa Giovanni XXIII, prima che arrivasse un giorno la buona notizia dei corridoi umanitari. Da allora Badee’ah ha convinto tutti ad attendere la partenza per Roma. Ha così  evitato il viaggio della disperazione. Ha avuto tempo e modo di portarsi dietro l’essenziale o piccoli frammenti di memoria da cui passa a volte la dignità.
Anche Rasha ora è in Italia. Non sa se riuscirà mai a ritrovare suo marito. Insieme ai suoi tre figli, Jafar, Omar e Jenin, proviene dalla periferia di Damasco, da quel campo palestinese di Yarmouk, dal quale è scappata dopo che le schegge di una bomba le hanno fatto perdere la vista. Dopo alcuni anni di vita da rifugiata, in Libano, a Roma dei medici si prenderanno cura di lei e soprattutto, come lei stessa racconta, «finalmente i bambini potranno andare a scuola». Come tanti altri migranti è fuggita dalla stessa guerra e follia. Ma di diverso, Rasha e i suoi figli, hanno avuto tempo e modo di portare una loro valigia. Insieme ad essa hanno portato una forte speranza per il futuro.

Antonio Salvati

Marco Peroni
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