“Ringrazio
 che siamo vivi”, a dispetto del sottotitolo “Giovani stranieri in carcere”, non
 è un libro che parla (soltanto) di storie di integrazione fallita, ma ci porta
 ad attraversare la nostra società vista con gli occhi di chi, straniero, l’ha
 raggiunta ancora giovane o addirittura vi è nato. Seppure l’autore non operi
 una simile suddivisione, potremmo dire che è un libro con quattro diversi
 focus. 
  Il
 primo è quello dell’immigrazione, con tutte le sue diverse problematiche: dal
 rapporto con il paese di origine alla scuola, dal tema dell’identità a quello
 del viaggio, dal problema dei minori non accompagnati giunti da soli in Italia
 alle dinamiche delle famiglie transnazionali, che vivono cioè “al di qua ed al
 di là del mare”. In questi capitoli Saracino ci accompagna a scoprire una
 abbondante seppure non esaustiva letteratura nel campo degli immigration studies, a partire dalle
 storie dei giovani intervistati in dieci carceri italiane. 
  Il
 secondo focus è potremmo dire quello che non vorrei descrivere con la parola
 “devianza”, ma piuttosto l’attrazione di un gorgo da cui diviene difficile uscire:
 la vita di strada, la droga, il denaro facile, i circuiti della malavita e
 della marginalità. Sono temi non semplici, che l’autore affronta senza cedere
 né ad un giustificazionismo di maniera né allo spirito dei tempi che porta a
 guardare a questi fenomeni in termini securitari. Anche questa parte è
 attraversata da numerosi excursus che aiutano il lettore a spostare lo sguardo
 dalla società di provenienza a quella di arrivo dei giovani stranieri, perché
 secondo l’autore è questa, con elementi quali disoccupazione, mancata scolarizzazione
 e basso reddito che aiuta a comprendere le cause della criminalità piuttosto
 che l’origine geografica, il background culturale e le caratteristiche sociali
 del paese di origine. 
  Un
 terzo punto di attenzione è quello della vita in carcere. Partendo da alcuni
 autori classici degli studi carcerari, quali Goffman e Foucault, il libro
 giunge a descrivere nella sua concretezza le sue dinamiche della vita
 carceraria, radicalmente mutata in questi ultimi decenni a causa della progressiva
 apertura all’esterno ma paradossalmente sempre uguale a se stessa. Il carcere
 può essere luogo da cui ripartire per una ricostruzione del proprio sé,
 cogliendo occasioni quali la scuola, lo sport o il sostegno offerto da
 psicologi e volontari. Oppure può essere un luogo di adattamento, in cui “si fa
 la propria galera”, aspettando che passi il tempo. Il tempo, questa dimensione
 ineludibile ancora troppo poco studiata, è infatti l’unica risorsa di cui
 dispongono in modo significativo i detenuti, sottoposti invece ad una profonda
 limitazione dello spazio. Fondamentale in questo terzo snodo è il capitolo
 dedicato alla religione in carcere, aspetto ancora poco studiato in Italia
 rispetto ad altre esperienze europee, e va detto che la recente maggior attenzione
 a questi temi sembra essere motivata dalla preoccupazione legata ai fenomeni di
 radicalizzazione islamica in carcere: ma come è possibile indagare ciò, se
 manca l’attenzione ad una sfera così significativa, come quella della fede
 religiosa vissuta tra le sbarre?
  Ultimo
 aspetto su cui si sofferma l’attenzione di Saracino è quello del rapporto tra
 immigrazione e criminalità, che pur essendo un tema sotteso a tutta la
 trattazione, riceve particolare attenzione nel capitolo introduttivo e nella
 conclusione, dove viene passato rapidamente in rassegna il dibattito di questi
 ultimi anni e si tenta una analisi statistica sulle correlazioni esistenti tra
 presenza di stranieri sul territorio e numero di reati commessi. Al 30/4/ 2017
 i detenuti stranieri presenti erano 19.268 a fronte di 56.436 presenti (34,14%).
 Il numero di stranieri ristretti e la loro percentuale maggiore rispetto alla
 presenza di stranieri nel nostro paese non significa una maggiore propensione
 al crimine, come qualcuno ha sostenuto. Come sostengono alcuni studiosi l’analisi
 non può prescindere da una fondamentale distinzione: quella tra stranieri
 “regolari” e stranieri “irregolari”. Infatti, distinguendo detenuti stranieri
 regolari ed irregolari si rileva che la condizione di irregolarità è uno dei
 fattori che incide sulla sovrarappresentazione. Inoltre, come denunciato dall’associazione
 Antigone altri fattori incidono significativamente sulla sovrarappresentazione
 dei migranti in carcere rispetto alla popolazione italiana: la presenza di
 crimini specifici dei migranti (connessi alla legge sull’immigrazione),
 possibili discriminazioni o pregiudizi (in sede processuale o difensiva);
 l’accesso ad una difesa adeguata, la comprensione corretta del momento
 processuale, la difficoltà di applicazione dei benefici pre-processuali (come
 la custodia domiciliare, o l’accesso a misure alternative dalla libertà) che
 influiscono ad ingrossare il numero.
  Abbiamo
 detto quattro focus tematici. Ma il vero filo conduttore del libro sono le voci
 dei giovani intervistati. Circa cento stranieri al di sotto dei trent’anni,
 incontrati in dieci carceri tra Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e
 Toscana, scelte tra quelle con la maggior presenza di detenuti non italiani.
 L’autore sceglie di riportare per intero o quasi molte storie. Ciò risponde ad
 una duplice esigenza: da una parte non considerare i detenuti intervistati solo
 come oggetto di ricerca ma come soggetti da rispettare e a cui restituire voce,
 dall’altra costruire una sociologia aperta, che consenta al lettore e allo
 studioso di trarre conclusioni diverse a partire dalla lettura dei testi e
 dall’incontro, ancorché mediato, con la realtà dei detenuti stranieri. Saracino
 riesce così, attraverso queste voci, a farci leggere nelle pieghe della nostra
 società, vista attraverso la “realtà rovesciata” del carcere, così come la
 definisce Andrea Riccardi nella sua prefazione. Allontanandosi un poco, ma in
 realtà avvicinandosi a questi giovani, è possibile capire qualcosa di più di
 noi stessi e della città in cui viviamo.
   
  Antonio
 Salvati
  
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