La breve biografia di Benjamin Lay, opera di Marcus Rediker, storico e docente all’Università di Pittsburgh, ci restituisce lo spessore di un piccolo – era alto forse un metro e 20 – grande uomo, un militante della lotta antischiavista oggi quasi dimenticato, che, quacchero, fu capace di porsi contro l’opinione prevalente tra i suoi compatrioti, in Inghilterra e poi in America, e tra la sua congregazione, per coerenza con i propri ideali e con quello che gli sembrava fosse evidente nelle Scritture.
Lay fu un uomo strano, fuori dall’ordinario, scomodo e tenace, amante dei gesti sensazionali e delle posture profetiche, un ribelle abitato dalla coerenza, un credente insofferente alle convenzioni, una figura in netto anticipo sui tempi.
Quel “piantagrane” non è passato alla storia, ma l’ha fatta. Testimone del male della schiavitù nelle Barbados e poi in Pennsylvania, autore di un testo confuso da un punto di vista tematico, ma straordinariamente efficace sul piano argomentativo – l’“All Slave-keepers that keep the Innocent in Bondage, [are] Apostates” -, è stato un pioniere dell’abolizionismo mezzo secolo prima che esso emergesse come un vero e proprio movimento nella società americana.
La sua vicenda merita davvero di essere conosciuta.
Francesco de Palma
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