Categorie: LETTURE

“Questi sono i nomi”

“Questi sono i nomi” è la traduzione italiana dell’incipit del libro biblico dell’Esodo, è l’intestazione del libro stesso in ebraico. Ma è anche il titolo di un bel libro di qualche anno fa dell’olandese Tommy Wieringa, un racconto che parla di altri esodi, il viaggio di alcuni migranti nel tentativo di avviare una nuova vita oltreconfine, e il viaggio di un commissario di polizia alla ricerca delle proprie radici.

Lo scenario è quello post-sovietico, fatto di grandi e vuoti spazi, che richiamano il deserto, uno scenario descritto con indeterminatezza, malato di corruzione e di caos. E’ in uno dei paesi eredi del comunismo che il commissario Pontus Beg, non più giovane e per tanti versi non distante umanamente da quegli imperfetti uomini dell’Est, cerca di venire a capo della scoperta di una sua probabile origine ebraica e della vicenda di un gruppo che vaga alla ricerca di una terra promessa – la loro storia ricorda quella narrata da Sciascia ne “Il lungo viaggio” -, prima nella steppa, poi nell’immaginaria città di Michailopol, un gruppo composto insieme di vittime e carnefici.

Vittime e carnefici. In un non-luogo fatto di desolazione tanto dal punto di vista paesaggistico quanto da quello umano, i migranti finiscono per adorare più il vitello d’oro delle proprie pulsioni e delle proprie superstizioni, che l’Eterno e i suoi comandamenti.

In un romanzo denso di rimandi e che si presta a più piani di lettura, Wieringa ci parla di tutti coloro che sono morti e continuano a morire di speranza, dei mercanti di uomini che si arricchiscono delle altrui disgrazie, della facilità con cui l’animo umano è pronto ad abdicare alle proprie responsabilità per affidarsi a parole ingannatrici, della continua ricerca – anche tra compagni di sventura – di un capro espiatorio. E però pure della possibilità di rinascere a una vita nuova e più “pulita”.

In “Questi sono i nomi” siamo noi a dover dare un nome al bene e al male che albergano nel cuore di tutti, su un orizzonte inquietante come quello di un deserto che parla di vita e di morte e che ha bisogno di essere popolato di più alberi e di più uomini.

Francesco de Palma

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