Sono tante le analisi, le
 pubblicazioni che tratteggiano “malata” la nostra democrazia. Anche scorrendo i
 giornali, ogni giorno, incontriamo commenti, più o meno approfonditi, sui
 difetti, sui “mali” della democrazia contemporanea con conseguente crescita
 dell’insoddisfazione dell’uomo democratico (l’homo
 democraticus) verso la società in cui vive e quindi nei confronti delle
 istituzioni del governo rappresentativo. Varie le cause individuate: la
 debolezza dei partiti politici (sempre più incapaci di prestare ascolto alle
 persone e incapaci di avanzare soluzioni adeguate ai problemi); la
 mediatizzazione della politica; lo spaesamento complessivo dell’uomo
 contemporaneo; un forte senso di precarietà che ha distrutto la convinzione,
 che ha accompagnato le società occidentali nel secondo dopoguerra, secondi cui
 le nuove generazioni potessero vivere meglio di quelle dei loro padri, e
 quant’altro. Da non sottovalutare la difficoltà dei cittadini di formarsi
 un’opinione su scelte sempre più complesse, che vengono loro sottoposte, per le
 quali spesso è arduo calcolare anche le più immediate conseguenze. Parafrasando
 Ionesco potremmo dire: Dio è morto, Marx pure, e anche la democrazia non si sente molto bene.
  
   
  Un libro recente , significativamente
 intitolato Democrazia avvelenata, degli
 studiosi Dario Antiseri, Enzo Di Nuoscio e Flavio Felice, ci fornisce alcuni percorsi
 con cui affrontare le sfide dei tempi incerti che viviamo e garantire alla
 “democrazia dei cittadini” nuove possibilità e un futuro. Giustamente
 sostengono che le democrazie occidentali hanno bisogno di una articolazione
 poliarchica, di istituzioni inclusive, di Stati in grado di regolare i processi
 economici e di garantire le libertà dai vecchi e nuovi nemici e i diritti
 sociali dalle vecchie e nuove ingiustizie.
  Istituzioni inclusive e diritto d’asilo sono questioni strettamente legate. In tal senso, molto del nostro
 futuro – ha sostenuto 
Daniela Pompei della 
Comunità di Sant’Egidio, promotrice dei 
corridoi umanitari – dipenderà
 da come sapremo affrontare in modo positivo il fenomeno delle migrazioni. Non a
 caso il Presidente Mattarella ricorda frequentemente, in richiami non formali, che
 devono restare fermi gli obblighi costituzionali dello Stato, per quanto
 previsto dall’art. 10 della Costituzione e gli impegni internazionali assunti
 dall’Italia. E’ sempre utile ricordare che il citato art. 10 della nostra
 Costituzione, nel primo comma afferma che l’ordinamento giuridico italiano si
 conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, e fra
 queste vi sono anche quelle che garantiscono diritti dei rifugiati e diritti
 dell’uomo. Alcuni giorni fa sulle pagine di 
Avvenire l’ex componente del CSM Cananzi emblematicamente ricordava che nel corso dei
 lavori dell’Assemblea costituente fu la componente cattolica a sollecitare una
 modifica del 
 suddetto articolo della
 Costituzione, 
 per favorire un accesso
 più ampio al diritto di asilo. Mentre il gruppo comunista proponeva di riconoscere
 tale diritto solo allo straniero che fosse stato perseguitato per aver difeso i
 diritti di libertà e del lavoro, i costituenti cattolici proposero e ottennero
 la modifica con l’attuale riferimento a tutte le libertà democratiche garantite
 nel nostro Paese e all’effettività della tutela delle stesse, “
da non intendersi in senso formale” – precisa
 Cananzi, “
ma da verificarsi in concreto
 rispetto al trattamento ricevuto nei Paesi di origine”. In altri termini,
 tutti i diritti di libertà garantiti per i cittadini italiani divengono, alle
 condizioni previste dalla legge, parametro di riferimento per valutare la
 richiesta di asilo dello straniero. Pertanto, la protezione umanitaria – il cui
 riconoscimento si vuole limitare – trova la sua radice nell’art. 10 della
 Costituzione, come forma di tutela residua quando non sussistano i presupposti
 per la protezione internazionale e sussidiaria.
   
   
  Non è superfluo ricordare che uno
 dei maggiori effetti della Seconda guerra mondiale e dei totalitarismi, da un
 punto di vista giuridico, è stato il riconoscimento dei diritti dell’uomo, al
 di là di distinzioni di razza, religione, sesso, lingua, condizioni sociali e
 politiche, come ci ricorda l’art. 3 della Costituzione. Questa consapevolezza è
 presente anche nelle Carte sovranazionali dei diritti dell’uomo. L’Italia ne è
 parte integrante, avendo accettato limitazioni alla propria sovranità, come ci
 ricorda l’art. 11 della Costituzione, per promuovere un ordinamento che
 favorisca la pace e la giustizia. Si tratta di scelte concrete compiute dopo una
 guerra con 55 milioni di morti. Un bilancio che pesava sui governanti di tutti
 i Paesi e che favorì il riconoscimento dei diritti dell’uomo e la nascita delle
 Organizzazioni internazionali, in primo luogo l’Onu, proponendo la visione
 della persona e della sua dignità collocata all’interno della comunità
 internazionale.
  Alla luce di quanto detto è evidente che bisogna riprendere a
 vivere la storia, che non è solo un cumulo di macerie e di errori. Non è
 possibile vivere un tempo complesso come il nostro senza interrogarsi, ha più
 volte sostenuto Andrea Riccardi. Occorre tornare a discutere, leggere: le
 semplificazioni e le paure si annidano nell’ignoranza. Sono indicazioni utili,
 ripensando alla nostra democrazia malata. Una percorso, una terapia da adottare
 è quella di essere pronti, preparati all’impatto con il mondo globale con un
 massiccio investimento sulla cultura, che non c’è stato. Coltivare cultura,
 memoria storica, incontri, amicizia, dialogo: un orizzonte in cui muoversi inquadrare
 notizie, gestire messaggi dei media e dei social. E soprattutto per evitare un
 nuovo spettro: diventare la «democrazia
 del pubblico», di un pubblico ridotto a cliente passivo di abili
 imbonitori.
  
  Antonio Salvati
   
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