E’ necessario
 raccogliere l’appello sul disinteresse generale del nostro paese sui conflitti
 armati nel mondo, lanciato dal quotidiano Avvenire che – per chi non l’avesse
 capito – è assai apprezzato dalla redazione del nostro blog. Uno dei motivi di
 apprezzamento è legato proprio al suo costante ed attento sguardo sul mondo e
 sui fenomeni globali che lo caratterizzano. 
 E, in particolar modo, ai conflitti violenti che costellano molte aree
 del pianeta, partendo dall’analisi dell’accresciuto ruolo della produzione delle
 armi. Negli ultimi anni in Italia si sta sempre più diffondendo un’informazione,
 non di rado provinciale e ripiegata su questioni nazionali. Non a caso gli
 esperti segnalano una convinzione parecchio diffusa tra gli operatori del
 settore, ovvero che i giornali locali stiano consolidando la loro forza grazie
 all’eterna curiosità sugli avvenimenti locali che spinge, ancora, a comprare e
 leggere i quotidiani a diffusione regionale.
  
   
  Pertanto, ben vengano
 gli allarmi sollevati dai direttori di Avvenire e Famiglia Cristiana che hanno
 collaborato alla stesura del Rapporto della Caritas «Il peso delle armi, al
 fine di contrastare – come rilevano i curatori del rapporto – una diffusa
 ignoranza sul tema tra la popolazione italiana.
  Il primo dato da
 mettere in rilievo è che sono 378 i focolai (tra cui 186 crisi violente e 20
 guerre ad alta intensità) censiti dal rapporto di Caritas italiana, accompagnati
 da un aumento di produzione e vendita di armamenti. Diminuiscono i conflitti
 non violenti, di tipo politico-territoriale, mentre aumentano le cosiddette crisi
 violente: dalle 148 del 2011 si è passati appunto alle 186 del 2017 (più
 25,7%). Come accennato, la disponibilità di strumenti bellici è una delle cause
 della profonda instabilità politica che colpisce grandi regioni in Africa,
 Asia, Medioriente. I danni umani di una guerra è sempre un’impresa ardua
 determinarli. I curatori del rapporto – per fornirci un’idea dell’assurdità
 della guerra e della cecità di chi la promuove – ci informano che una mina
 antipersona costa 3 dollari, ma ne occorrono 1.000 per neutralizzarla. L’anno
 scorso abbiamo avuto il record di spesa per gli armamenti dai tempi della
 Seconda guerra mondiale. Nella classifica dei paesi esportatori di armi ci sono
 in testa gli Stati Uniti col 34,0%, seguiti da Russia (22%), Francia (6,7%),
 Germania (5,8%), Cina (5,7%) e Regno Unito (4,8%). Poi Israele e Spagna con
 entrambi il 2,9%, quindi l’Italia col 2,5%. Tra i principali importatori invece
 Arabia Saudita, Emirati Arabi, Australia, Iraq e Pakistan. Paesi che
 contribuiscono ad alimentare i conflitti in Yemen, Nord Africa e Medio Oriente.
 E’ evidente che gli Stati restano persuasi che, per vincere le guerre, servono
 arsenali sempre più ricchi e potenti. Le armi incidono sempre più nelle
 dinamiche legate ai conflitti, ma anche in molte altre situazioni. Producono un
 impatto su diversi ambiti della vita delle persone e sulle crisi umanitarie.
 Arrivando a determinarne il corso. L`orizzonte è pesante, ha più volte
 ricordato Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, e
 «con gli attuali armamenti, non si
 scherza con le guerre». Oggi il mondo non è più sotto il controllo di due
 grandi imperi, ricorda Riccardi, ma multipolare e imprevedibile: «forse per questo le crisi sono più
 pericolose. I giganti asiatici sono protagonisti decisivi; tanti Paesi giocano
 per conto loro secondo l’interesse nazionale». Non si deve avere nostalgia
 della Guerra fredda, ma ci sono nuovi pericoli. Il linguaggio aggressivo della
 diplomazia internazionale, le scelte unilaterali di alcuni Paesi, l`incapacità
 – come in Siria – a chiudere i conflitti con un`intesa e tante incognite
 spingono alla cautela.    
  Anzitutto ci sono le
 armi leggere, le grandi protagoniste di uccisioni e ferimenti. Economiche,
 facili da usare, sono anche le armi usate per costringere, minacciare e
 spaventare, per permettere abusi ed espropri, e per armare i bambini arruolati
 nella guerra. Un mercato in costante crescita. 
  I curatori del Rapporto
 hanno anche voluto sondare l’opinione degli studenti delle scuole superiori. Ha
 commentato giustamente Marco Tarquinio che «le guerre iniziano a finire solo
 quando iniziamo a vederle. Solo se lo facciamo, esse possono finire», sottolineando
 come comunque il dato del 64% italiani favorevole alla riduzione della vendita
 armi «non è un dato scontato, perché oggi
 si sta tornando a dire che un loro aumento corrisponda ad un aumento della
 sicurezza. Quanto è povera una politica che non sa cosa fa e che asseconda
 invece queste tendenze».
  E la politica, sosteneva
 Plutarco, ha il compito di togliere all’odio il suo carattere eterno. Per i cattolici
 è e resta una sfida decisiva: lavorare e parlare in nome dell’umanità e del
 bene comune, facendo riferimento alla grande eredità che scaturisce dal forte ministero
 di pace, sviluppatosi dal Novecento al XXI secolo, dopo due dolorose guerre
 mondiali, assunto da Benedetto XV e vissuto da tutti i suoi successori, vera
 risorsa dell’umanità, che ha sempre invitato a dimettere un linguaggio
 aggressivo e di odio che conducono alla guerra. Papa Francesco è oggi in pieno
 l’erede di questa «profezia di pace», cui bisogna guardare con attenzione.
  
  Antonio Salvati
  
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