Il 9 aprile del 2019 in
 Israele si terranno le elezioni legislative che inizialmente erano invece
 programmate per il prossimo mese di novembre. Elezioni anticipate scaturite
 dalle dimissioni, nel novembre scorso, del ministro della Difesa
 ultranazionalista Avigdor Lieberman con conseguente ritiro dalla coalizione del
 suo partito Yisrael Beitenu, a causa del suo disappunto per un accordo di cessate
 il fuoco su Gaza raggiunto con le fazioni palestinesi armate, ritenuto una
 “resa al terrorismo”. Lieberman propendeva per una grande operazione contro
 Hamas nella Striscia di Gaza. Il premier Benjamin Netanyahu è favorito nei
 sondaggi. Tuttavia, le recenti critiche sulla sua politica a Gaza e alcune
 vicende giudiziarie che lo riguardano rendono l’esito delle votazioni assai
 incerto. Se rieletto, Netanyahu supererà il record di longevità al potere del
 padre fondatore dello Stato di Israele, David Ben Gurion, rimasto in carica per
 oltre 13 anni, fra il 1948 e il 1963.
  
   
  Sullo sfondo della
 campagna elettorale troneggia la questione vitale – da decenni – per Israele: porre
 fine al conflitto fra Israele e Palestina che da un secolo insanguina il
 Medioriente. Alcuni analisti sostengono che non c’è mai stato momento migliore
 di questo per realizzare un accordo. Non perché gli stati arabi sono disposti a
 riconoscere il “diritto storico” degli ebrei sulla Terra d’Israele, ma perché
 Egitto, Arabia Saudita, Emirati del Golfo, Giordania, stati del Maghreb, e
 finanche la Siria di Assad nell’immediato prossimo futuro devono fronteggiare
 questioni più “pericolose” dello stato di Israele. E poi, francamente, malgrado
 tutta la vasta retorica l’esistenza o l’annientamento dello stato d’Israele non
 sono mai stati una questione di vita o di morte né per la Siria né per la
 Libia, né per l’Egitto e neppure per l’Iran. Del resto, non c’è più Arafat con
 la sua intransigenza. Abu Mazen ha più volte manifestato la sua disponibilità.
 Un proverbio arabo dice: “non si può
 applaudire con una mano sola”. All’interno dello stato di Israele occorre,
 tuttavia, abbandonare l’dea dell’unico stato binazionale. Amos Oz, romanziere
 israeliano recentemente scomparso, si chiedeva: «come si fa a pretendere da israeliani e palestinesi, dopo cent’anni di
 sangue, lacrime e tragedie, che s’infilino in un letto matrimoniale e comincino
 la loro luna di miele? Se nel 1945 qualcuno avesse proposto di riunire Polonia
 e Germania in un unico stato binazionale, l’avrebbero di sicuro rinchiuso in
 manicomio. Già pochi giorni dopo la grande vittoria nella Guerra dei sei giorni
 scrissi della “catastrofe morale che una prolungata occupazione provoca
 all’occupante”. Già allora temevo che l’occupazione avrebbe devastato anche gli
 occupanti … No. Noi e i palestinesi non saremmo in grado già da domani, di
 diventare un’unica “famiglia felice”. Abbiamo bisogno di due stati. Dopo un
 certo tempo forse verranno collaborazione, mercato unico, federazione. Ma in
 questa prima fase il paese deve essere una casa bifamiliare, perché noi ebrei
 israeliani non ce ne andiamo via di qui, non ce ne andiamo da nessuna altra
 parte. Non abbiamo nessun altro posto dove andare. E perché anche i palestinesi
 non se ne vanno via di qui, non se ne vanno da nessun’altra parte. Neanche loro
 hanno un altro posto dove andare. La disputa fra noi e i palestinesi non ha
 niente a che vedere con un western hollywoodiano di buoni contro cattivi, è
 piuttosto la tragedia di un diritto contro l’altro». 
  E’ necessario un nuovo
 linguaggio, abbandonando aggettivi come “irreversibile”, termini come “mai” o
 espressioni del tipo “non se ne parla nemmeno”. Quale riservista nel deserto
 del Sinai durante la Guerra dei sei giorni e nel Golan durante quella del
 Kippur, avrebbe immaginato di poter un giorno recarsi come turista in Egitto e
 in Giordania con un visto egiziano o giordano sul suo passaporto israeliano?
 Quale israeliano avrebbe immaginato il presidente Sadat, “re degli arabi” alla testa dei nemici d’Israele, tenere un discorso
 al Parlamento israeliano e offrire pace e riconoscimento in cambio della
 restituzione di territori? Dopo aver visto Yitzhak Rabin e Shimon Peres
 stringere la mano di Yasser Arafat o i bulldozer di Sharon far sparire dalla
 faccia della Terra gli insediamenti che lui stesso aveva fatto costruire a
 Gaza, si evince chiaramente che non esiste mancanza di alternative tante volte
 evocata con l’espressione “situazione irreversibile”.
  
   
  La storia delle nazioni
 e degli individui ci riserva costantemente sorprese. Quest’anno celebriamo i
 trent’anni della caduta del muro di Berlino. Qualche anno dopo il comunista
 della prima ora Mikhail Gorbacëv provocò la fine una volta per tutte
 dell’Impero sovietico. Entrambi vicende decisamente sorprendenti. Tutte le
 volte che mi sono recato in Israele, e soprattutto a Gerusalemme, ho sentito dire
 che è difficile fare i profeti nel paese della profezia. C’è troppa
 concorrenza. I miei amici ebrei spesso mi ripetono – tra il serio e il faceto –
 che in Israele ci sono otto milioni e mezzo di primi ministri, otto milioni e
 mezzo di profeti, otto milioni e mezzo di messia. Ognuno con la sua personale
 interpretazione della redenzione, o quanto meno di una soluzione. Tanti urlano e
 solo pochi ascoltano. Tra parentesi: potrebbe essere anche il ritratto del
 nostro paese. L’auspicio da queste elezioni è che si possa formare una
 compagine governativa capace di accelerare il processo di pace, dare ad esso
 una svolta. Quanto meno provarci. E’ evidente che non sarà possibile chiudere
 in poco tempo lo scontro con i palestinesi. I palestinesi sono troppo pochi e
 troppo deboli per avere la meglio su Israele. Il blocco dei nemici di Israele
 potrebbe soppiantare Israele, se fosse spinto da una motivazione reale e non
 retorica, di pura propaganda. Quando una delle due parti sostiene “Questa è la mia terra” come darle torto?
 Ma se da entrambi le parti qualcuno dice: “Questa
 terra, dal Mediterraneo sino al Giordano, è tutta mia, è solo mia”, quel
 qualcuno desidera il conflitto. Occorre un compromesso (che non è una
 parolaccia). Sì: un compromesso fra Israele e Palestina. Sì: due stati.
 Spartizione di questa terra, che deve diventare una casa bifamiliare. Sui due
 fronti in tanti aborriscono l’idea del compromesso, quasi fosse una debolezza,
 un cedimento, persino un’umiliazione. Il compromesso – potremmo dire – sempre
 più è una scelta di vita. Il contrario del compromesso – direbbe Amos Oz – significa
 fanatismo, morte. Anche il fanatismo dei coloni più estremisti è reversibile.
 C’è molto da fare. Molte delle crisi temporaneamente risolte pretendono
 costanza e ostinazione. Costruire intese è complicato, smontarle è facile.
 Basta pensare all’accordo sul nucleare in Iran raggiunto dopo anni dalla
 comunità internazionale, messo in difficoltà in poche settimane.
  Fare la Pace è
 “Tikkun ‘Olam”, in ebraico rammendare un tessuto lacerato.
  
  Antonio Salvati
   
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