Ebbene si, una profonda “crisi
 esistenziale” – come l’ha definita la CNN – starebbe attraversando il grande
 colosso dei social network Facebook. Non solo per il crollo del titolo in Borsa
 che ha mandato in fumo diversi miliardi di dollari del gruppo in relazione allo
 scandalo Cambridge Analytica. A Facebook – e al suo fondatore Mark Zuckerberg –
 in tanti hanno formulato una richiesta di informazioni e di chiarimenti circa
 l’impiego di data analytics per finalità di comunicazione politica, da parte di
 soggetti terzi diversi dalla piattaforma. I paladini della privacy esultano.
  
   
  Indubbiamente, stiamo assistendo
 a un progetto, quello di Zuckerberg, per
 alcuni versi utopici, che si sta infrangendo su scandali di natura politica,
 etica, nonché legale. Eppure, stiamo di fronte a un personaggio straordinario,
 come più volte ci ha raccontato l’esperto di cose americane Federico Rampini. E
 portatore di un messaggio suggestivo con una precisa visione politico-morale: «Siamo una comunità globale unica,
 nell’accogliere i rifugiati che tentano di salvarsi da una guerra, o gli
 immigrati in cerca di opportunità; nell’unirci per combattere un’epidemia o il
 cambiamento climatico». Ha polemizzato contro «l’attuale tendenza di molte nazioni a ripiegarsi su se stesse». Ha
 accusato «le voci della paura che
 invitano a costruire muri e a prendere le distanze dalle persone descritte come
 diverse da noi». Al centro del suo verbo, Zuckerberg ha messo uno slogan: «Dare a ciascuno il potere di condividere con
 tutti gli altri». Verbo chiave è «to share», che indica la «condivisione»
 di messaggi, foto, esperienze e commenti che ciascuno fa con gli amici sulle
 proprie pagine di Facebook. Ma è anche allusione a un altro tipo di
 condivisione, la diffusione delle opportunità, la distribuzione delle
 ricchezze. Zuckerberg – spiega Rampini – “si
 appropria così di una tradizione della giovane Silicon Valley e di tutta la
 West Coast americana: un luogo dove gli imprenditori hanno spesso cavalcato
 visioni progressiste, utopie sociali, il sogno di rifare il mondo”. Com’è
 noto, da Bill Gates a Steve Jobs, da Larry Page a Elon Musk, molti pionieri
 dell’innovazione tecnologica hanno anche proposto un credo ideologico
 libertario, ambientalista, inclusivo, multietnico. Zuckerberg si candida in
 questo caso a rubare il ruolo a Google, che agli albori fu celebre per il motto
 «Don’t be evil», non essere cattivo o
 non fare del male. «Ci vuole coraggio
 oggi» ha detto Zuckerberg «per
 scegliere la speranza al posto della paura. Se lo fate, qualcuno vi definirà
 ingenui, ma ogni passo avanti nel progresso è stato consentito da questa
 speranza e da questo ottimismo.» Zuckerberg ha forse accarezzato il sogno
 di una candidatura alla Casa Bianca, come sembra attestare il tour nazionale compiuto
 la scorsa estate in trenta Stati Usa con lo scopo dichiarato di «conoscere meglio gli americani».  
  Zuckerberg è ancora giovane, con
 grosse qualità: ha costruito in poco tempo un’impresa che vale cento volte
 quella di Trump: 500 miliardi di dollari è la capitalizzazione di Facebook. Non
 è un’impresa qualunque, è la nuova «piazza virtuale» dove quasi un terzo della
 popolazione mondiale (due miliardi) dialoga e socializza, si scambia
 informazioni, emozioni, amicizie. Abbiamo detto che è progressista. Ma su
 questa etichetta si apre un problema, come ci avverte Rampini: “i liberal della Silicon Valley sono fin
 troppo di sinistra – rispetto al baricentro politico della nazione – su temi
 come l’ambiente, i matrimoni gay o la marijuana. Ma hanno costruito un’alleanza
 malefica con Wall Street e un capitalismo diseguale, afflitto da problemi
 sociali enormi”. Che non si risolvono a colpi di beneficenza, seppur
 decisamente utili e importanti per risollevare le vite di tanti disperati del
 nostro pianeta. 
  Torniamo alla vicenda dalla quale
 siamo partiti, lo scandalo Cambridge Analytica. Attenzione a non demonizzare i
 famigerati Big Data, ossia le tracce che noi lasciamo in rete. Attraverso essi
 riusciamo a risolvere tanti nostri problemi della vita quotidiana. Ad esempio,
 trovare lavoro senza lasciare dati in rete oggi sarebbe un’impresa assai
 difficile. Impossibile tornare indietro. Il problema è il loro utilizzo nelle
 competizioni politiche, come è accaduto con la costruzione di profili
 dettagliati di milioni di elettori americani su cui testare l’efficacia di
 molti di quei messaggi populisti che furono poi alla base della campagna
 elettorale di Trump. Come evitare che le attuali forme di sondaggio del
 pensiero degli elettori non siano fuorviate dalla diffusione di bolle emotive?
 Come indirizzare le persone a cercare notizie ed informazioni in luoghi più
 sicuri? Non ci sono soluzioni immediate ed efficaci dietro l’angolo.
  In realtà, la nostra liberaldemocrazia,
 europea e americana, è malata, non soltanto di decadimento del discorso
 pubblico e della qualità dell’informazione. Principalmente, soffre di un male talmente
 vasto che si è esteso su vari continenti. Ci riferiamo ai pesanti squilibri
 sociali ed economici. In questo quadro – afferma giustamente Rampini – i
 Padroni della Rete come Zuckerberg sembrano portatori del virus, più che medici
 curanti.
  
  Antonio Salvati
   
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