Quello di cui parla Alessandro
 Leogrande, giovane giornalista e scrittore recentemente scomparso, nel suo
 volume Uomini e caporali. Viaggio tra i
 nuovi schiavi nelle campagne del Sud (Feltrinelli, 2016), non è solo una
 denuncia del “lavoro nero” nel meridione d’Italia. Leogrande ha messo in luce
 quanto accade in una regione importante del nostro civilissimo paese, appartenente
 all’Unione europea: un sotto-mondo inquietante, che va da gravi forme di
 ipersfruttamento lavorativo a casi di vera e propria riduzione in schiavitù,
 per come questa è contemplata dall’articolo 600 del codice penale (tale norma è
 stata profondamente modificata prima con il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, in
 attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla
 repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime). Anche
 grazie alle ricerche di Leogrande è stata emanata – nella passata legislatura –
 la legge 29 ottobre 2016, n. 199 intitolata Disposizioni
 in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del
 lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo
 in vigore dal 4 novembre 2016, che ha modificato in maniera significativa il
 reato di c.d. caporalato (fenomeno, invalso in particolare nelle campagne del
 sud d’Italia, che consiste in un’organizzazione del lavoro agricolo
 svolto da braccianti suddivisi in squadre e reclutati da un soggetto che agiva,
 come intermediario nel reperimento della manodopera e poi responsabile dei
 lavori, secondo le richieste dell’imprenditore agricolo) punito all’art. 603
 bis c.p., introdotto di recente dal d.l. n. 138/2011, poi convertito nella
 legge n.148/2011. La legge del 2016 permette di punire non solo il caporale ma
 anche il datore di lavoro. E non incrimina soltanto le persone fisiche, ma
 anche le imprese perché stabilisce la loro responsabilità penale diretta. «La legge sul caporalato approvata
 nell’ottobre 2016 sta funzionando. Prima i processi per questo reato erano
 stati solo una trentina in tutta Italia. Oggi invece sono centinaia in varie
 procure dal Nord al Sud. Inoltre questa legge sta permettendo di attaccare
 tutte quelle condizioni che ledono la dignità del lavoratore, i diritti
 sociali, sindacali e della sicurezza», ha affermato pochi giorni fa il
 magistrato Bruno Giordano, professore alla Statale di Milano ed ex consulente
 della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sicurezza del lavoro. E tra
 gli esperti ascoltati nella stesura della legge.
  
   
  
  Come si evince dal titolo, il
 libro è un viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, in particolar
 modo nella Puglia del nord, che descrive la loro condizione disumana, le vite
 maledette dei nuovi braccianti stranieri della Capitanata (nome storico che
 l’unità amministrativa aveva nel Regno delle Due Sicilie) e dei loro aguzzini:
 i caporali. Francamente sono assai grato a Leogrande per questo libro perchè ha soddisfatto diversi miei dubbi e curiosità. Ogni estate
 mi reco per alcuni giorni in queste terre, essendo i miei genitori originari di
 un comune del foggiano. Restavo e continuo a restare meravigliato di tanto
 sfruttamento alla luce del sole, nell’assordante silenzio della stampa
 nazionale sul caporalato, salvo rare eccezioni. Similmente alle vicende del famigerato
 clan dei Casalesi, trattate solo dalla stampa locale, fino al libro denuncia di
 Roberto Saviano, Gomorra. Evidentemente – è stato osservato – i noti fatti di
 Rosarno in Calabria risultano con questo volume più comprensibili.
  Giustamente viene evidenziata la
 continuità con il passato, quando i braccianti erano italiani, più poveri di
 oggi, e descritta l’alleanza tra i piccoli proprietari ed i grandi latifondisti
 che sviluppò violenza, morti e l’affermazione del fascismo. E, soprattutto,
 viene sottolineata la sostanziale ed indispensabile complicità, con i caporali,
 degli abitanti dei paesi vicini che non possono ignorare quello che avviene nei
 campi vicini. Ripeto, chiunque si rechi in queste aree può senza difficoltà
 alcuna vedere – insieme al diffusissimo fenomeno riguardante la presenza di
 numerose prostitute, soprattutto nigeriane, rumene e bulgare, specialmente
 lungo la Statale 16 nel tratto da San Severo a Chieuti verso Termoli
 (schiavizzate, picchiate o violentate quasi sempre da un’organizzazione
 criminale del paese di origine che si interfaccia con un’organizzazione
 criminale locale, che permette l’affare) – quanto nel cuore di questa enorme
 provincia italiana, quella di Foggia, la più estesa del meridione, si
 realizzano, lontano dalla aree urbane, le più profonde e “avanzate”
 trasformazioni; e l’agricoltura (con il consistente lavoro agricolo dei nuovi
 braccianti non-italiani) è la testa di ponte di questa trasformazione.
 Specialmente durante la raccolta del pomodoro (il 35% della produzione
 nazionale del pomodoro avviene in Puglia) si verificano numerosissimi casi di
 riduzione in schiavitù nel Tavoliere di Puglia e – come racconta Leogrande – sparizioni
 o uccisioni di alcuni braccianti stranieri. Il libro prende spunto dalla
 brillante narrazione della lunga inchiesta, partita nel 2005 dalla coraggiosa
 denuncia di tre studenti polacchi, Arkadiusz, Wojcech e Bartosz. Andati in Puglia proprio per la
 raccolta dei pomodori, in quanto attratti dalla paga di sei euro per ogni
 cassone da tre quintali, come loro promesso, invece di un lavoro retribuito
 come stabilito, si sono ritrovati sfruttati e schiavi, controllati da caporali
 della loro stessa nazionalità. Pur non essendo affatto semplice sottrarsi a
 questa struttura schiavistica, scelgono la fuga e dopo essere riusciti a
 contattare il consolato coraggiosamente, a differenza di molti altri, denunciarono
 i loro aguzzini.
  
   
  Insomma, un libro da leggere, da
 condividere perché scritto con la passione dei giusti che mostrano come cambia
 il mondo, dalla parte degli ultimi, dei dannati della terra, siano essi
 lavoratori minacciati da violenti caporali, migranti che scappano da guerre
 civili, desaparecidos. Anche un libro che invita alla lotta contro il silenzio.
 Il silenzio che non ricorda, che genera dimenticanza. L’autore ha voluto
 mostrare come nel far luce sul passato (in particolar modo le lotte contadine
 del biennio rosso che precedettero l’affermazione del fascismo) ha compreso il
 presente. Eppure, il passato di questa landa – lamenta l’autore – non è più
 davanti agli occhi di tutti: “non è più parte
 di un orizzonte condiviso. È stato sommerso … e nel momento in cui, con lo
 sviluppo economico e il trasferimento di massa nelle città, gli uomini si sono
 lasciati alle spalle il vecchio mondo contadino, questo passato si è fatto
 ancora più sbiadito”. La nostra generazione (diciamo quelli nati negli anni
 sessanta e Settanta del secolo scorso) “fa
 fatica a riconoscere i reietti, l’esistenza di un’umanità derelitta. Fa fatica
 a comprendere che ai margini di un corpaccione sociale che sembra asetticamente
 compatto, c’è un altro mondo. Ci sono uomini e donne che si rotolano nella
 polvere per raccogliere un pomodoro o strappare una patata, uomini e donne che
 vivono in catapecchie diroccate, uomini e donne per cui sei, sette, dieci euro
 sono una somma che ha il potere di dividere la vita dalla morte. E che a sera,
 santamente, raccolgono e contano uno sull’altro quei pochi spiccioli, dicendosi
 vivi”. Non è la miseria, come in molti a questo punto sarebbero portati a
 pensare, il principale retaggio del passato, avverte giustamente Leogrande. “È la violenza, la disumanità delle
 relazioni, la bestialità della sopraffazione, il considerare quei sei, sette,
 dieci euro, che altri contano e ricontano santamente, più importanti della loro
 esistenza. Le acque nere che scorrono nelle grotte, quelle acque che formano un
 fiume limaccioso che da ieri giunge a oggi (e che la città non ricorda o non
 vuole ricordare, non vede o non vuole vedere) sono acque intrise di violenza.
 Una violenza non mediata, che si abbatte senza trovare ostacoli sugli uomini e
 sulla terra. La rammemorazione è l’unica arma che permette di comprendere la
 natura di questa violenza, di individuarne la dinamica nel presente alla luce
 di quanto è avvenuto nel passato”.
  
  Antonio Salvati
   
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