Abbiamo
 appreso con preoccupazione i risultati dell’ultimo rapporto del CENSIS che ci
 parla di un Paese sfiduciato, incattivito ed egoista. Potremmo dire un paese
 dove si respira un’aria di malumore. Malumore che spesso accompagna le nostre
 giornate e ci rende più o meno piacevole affrontarle. Tale stato psicologico
 facilmente genera sfiducia. Seppur siamo consapevoli che la nostra vita è scandita
 da atti di fiducia (altrimenti non saliremmo su una metropolitana, non
 compreremmo determinati prodotti, non affideremmo i nostri risparmi ad una
 banca, non ci fideremmo dei medici e quant’altro), seppur convinti che la
 fiducia è qualcosa di irrinunciabile, continuiamo a non nutrire fiducia nei
 confronti delle persone che contornano le nostre giornate. E – a nostro parere
 – da alcuni anni una consistente percezione di sfiducia si sta pericolosamente
 insinuando nel mondo della scuola tra gli addetti ai lavori, così come tra la
 scuola ed i suoi utenti. A scuola – come del resto altrove – spesso ci
 accorgiamo, in momenti di lucidità, che noi non conosciamo gli altri, ma le
 relazioni che abbiamo con loro. Se poi queste relazioni sono scarse,
 stereotipate, e, come spesso accade, fondate sul malessere, non si può produrre
 fiducia. 
  
   
  Ai
 giovani – ma, potremmo dire, anche agli adulti – servono testimoni affidabili.
 Un insegnante affidabile significa tante cose. Non solo esprimersi con un
 linguaggio facilmente comprensibile. Significa avere uno stile relazionale il
 più possibile corretto e trasparente, magari evitando gli eccessi d’ira, il
 mettere in cattiva luce l’altro, il non assumersi responsabilità, l’ammettere i
 propri errori. Ma soprattutto – rievocando Don Milani con il suo I care – prendendosi cura, ossia saper
 essere interessati ai bisogni e agli interessi degli altri, ascoltare e trovare
 il tempo per farlo. Questi tratti di affidabilità li abbiamo rinvenuti in
 Alberto Bolletta, psicologo e psicoterapeuta, protagonista di un’interessante
 incontro svoltosi l’11 gennaio scorso con gli studenti dell’ITCG Matteucci sul
 tema del consumo di cannabis e sulle modificazioni che l’uso continuativo di
 cannabis produce sui comportamenti e sulla psiche degli adolescenti. Alberto Bolletta inizia a presentare storia,
 significati, numeri, effetti della cannabis. Sono tutti ragazzi del primo anno,
 ragazzi che si affacciano alla libertà, alla libertà e ai rischi delle scelte
 importanti. Sembrano curiosi, interessati. Forse si domandano cosa avrà da dire
 questo esperto che loro non sappiano già. Ma subito emergono delle novità
 perché Bolletta prosegue raccontando ai ragazzi i cambiamenti che gradualmente,
 senza che il ragazzo se n’accorga, l’uso della sostanza comporta. Ad un certo
 punto la loro vita è cambiata. A scuola le cose vanno male, i voti sono sempre
 peggiori. A casa cominciano le liti: la scuola, gli amici, i comportamenti.
 Niente sembra andare più bene. E la frase più frequente che il ragazzo si sente
 dire: “non sei più quello di prima!”
 Ma cosa vogliono? Di cosa si lamentano? In fondo io sono quello di sempre. Mi
 voglio solo rilassare. Voglio solo starmene un pò in pace. Quali sono le prime
 conseguenze sociali dell’uso della cannabis? Le relazioni diventano difficili,
 sempre più faticose. Ma c’è un altro furto che silenziosamente avviene. Il
 progetto di vita. L’adolescenza è in assoluto il momento di maggiore potenza
 nella vita di un individuo. Il momento in cui costruiamo il nostro progetto di
 vita e mettiamo insieme i mattoni per realizzarlo. Bene, i ragazzi che fanno
 uso continuativo di cannabis perdono l’interesse per il progetto, perdono la
 volontà, la forza per costruire. Tutto è troppo faticoso. Tutto diventa
 indifferente. E il cervello? Anche il cervello paga il suo prezzo. Nel periodo
 adolescenziale – ricorda Bolletta -, al pari del corpo, il cervello subisce le
 più grandi e importanti trasformazioni. È questo il periodo in cui si genera il
 maggior numero di cellule nervose, di connessioni neuronali. L’assunzione
 continuativa di cannabis inibisce questo sviluppo. Altro furto silente. Le
 prospettive si riducono. Quanti sono i ragazzi che fumano cannabis? Ma chi fuma
 cannabis diventa poi tossicodipendente? Sono interessati, vogliono capire. Il
 discorso passa, inevitabilmente, alla questione liberalizzazione. Chiedono: “non sarebbe meglio liberalizzare? Non si
 combatterebbe il mercato nero?” Bolletta li segue nel loro ragionare. Si
 giunge alla conclusione che l’unico modo per fermare il mercato nero è fermare
 la domanda. Se ne ricava anche la possibilità di una piccola lezione di
 economia: illegalità e concorrenza, libera disponibilità della sostanza ed
 aumento della propensione al consumo. Interessante. Ma all’insistere dei
 ragazzi sul tema della liberalizzazione, interviene l’insegnante di lettere che
 senza giri di parole, con chiarezza ed efficacia, riporta i ragazzi al fatto
 che alla loro età il problema della liberalizzazione non dovrebbe neppure
 porsi, perché la vera questione è “io
 scelgo di non fumare cannabis”.
  
   
  La
 cannabis altera la coscienza, come racconta efficacemente Bolletta nel suo
 libro Ragazzi che fumano cannabis.
 Soprattutto l’uso continuativo e gli alti dosaggi causano danni alla salute e
 alla autonomia intellettiva e di discernimento. Questi sono pericoli che
 corrono soprattutto gli adolescenti, ancora in una fase della vita
 dall’identità incerta, attestati in uno stadio di età molto complicata. La
 cannabis, indebolendo lo stato della coscienza, determina “un ritardo
 maturativo” negli adolescenti. La memoria, l’attenzione e la concentrazione sono
 lese. La molecola dello spinello è insidiosa, è smaltita dall’organismo umano
 molto più lentamente rispetto a quelle di altri pericolosi stupefacenti come la
 cocaina e l’eroina. Le tracce della canna restano nel corpo dei fumatori
 occasionali fino a una settimana e per i consumatori abituali, invece,
 occorrono addirittura dei mesi per lo smaltimento degli effetti di alterazione
 della coscienza. 
  Quali
 le cause che inducono ad un consumo eccessivo di cannabis? Tante e varie, in un
 tempo e in un  mondo che ci promette –
 come ci ricorda Mariolina Ceriotti Migliarese – fin da bambini grandi
 soddisfazioni: dei sensi (con esperienze di piacere insospettate e
 travolgenti), soddisfazioni incredibili nella vita sentimentale (che ci farà
 conoscere un amore capace di saturare ogni desiderio), soddisfazioni nella vita
 sociale (con una visibilità altamente gratificante e alla portata di ciascuno).
 E ci viene detto, fin da bambini, che siamo speciali: dunque, ci meritiamo la
 fortuna che ci è promessa. Tutto induce in noi un atteggiamento di credito. Cresce
 la percezione di essere in credito perenne verso la vita, pretendendo di partecipare
 al grande banchetto promesso. E quando questo banchetto non arriva, la vita non
 può che risultare deludente: la vita con le sue fatiche, le sue soddisfazioni e
 delusioni, i suoi sforzi, le sue attese, la pazienza insieme all’attesa ci
 risulta del tutto insoddisfacente, divenendo incapaci di apprezzare le gioie
 reali che ci regala continuamente. Si resta in attesa di una auto-realizzazione
 che non sappiamo bene cosa sia. Da qui il malumore, di cui dicevamo all’inizio,
 che conduce a tutte le piccole e grandi contrarietà che ogni giornata ci
 presenta. Con la domanda: dov’è, per noi (per me, per te) quell’amore speciale
 e travolgente, dov’è quella sensazione, quel successo che ti cambierà la vita e
 che sembra debba trovarsi a portata di mano? Perché tutto questo sembra così abbordabile,
 ma poi riguarda sempre qualcun altro?
  Con
 passione e preoccupazione il giurista e filosofo Pietro Barcellona, scomparso
 alcuni anni fa, sosteneva: “Il vero tema
 della generazione che abbiamo di fronte è una spaventosa mancanza d’amore che
 fa vivere i giovani in una dimensione di sconfitta inevitabile. I giovani a
 volte si sentono perdenti perché nessuno li ama e perché essi stessi non sono
 capaci di amarsi. Il nostro modello di civiltà, nonostante abbia sviluppato in
 modo parossistico l’autocomprensione e l’autoconservazione, non è riuscito a
 rompere la prigione mentale dei sistemi concettuali: più si sviluppano
 sofisticatissime teorie sulla conoscenza e meno si fa esperienza effettiva di
 una comprensione fraterna e affettuosa”.
  
  Giusi
 Iacorossi
  
  Antonio
 Salvati
   
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