E’ ampio il dibattito su bullismo e violenza nelle aule scolastiche che si è sviluppato in
 questi giorni sui media. Diversi episodi rilevano la presenza di
 una vera e propria “emergenze educativa” e la necessità di restituire la nostra
 fiducia in quella ‘comunità educante’ che chiamiamo scuola, per darle la
 possibilità di rispondere con saggezza e determinazione pedagogica alle sfide
 che quotidianamente le vengono poste dalla modernità tecnica e culturale.
 
  Tuttavia, la Fondazione Agnelli, meno di un mese fa, ha segnalato un’altra
 emergenza: la diminuzione della popolazione studentesca in Italia, da qui a
 dieci anni. La previsione è decisamente cupa: un milione di ragazzi
 in meno, tra i 3 e i 18 anni, risucchiati dal calo demografico, senza che
 l’immigrazione dei giovanissimi, con o senza “ius soli”, riesca più a
 pareggiare il conto. Elaborando dati Istat, la popolazione tra i 3 e 18 anni in
 Italia è oggi circa 9 milioni. Nel 2028 sarà scesa a 8 milioni (fra 7.796.000 e
 8.360.000 al 1 gennaio 2028). 
  
   
  Lo studio della Fondazione, piccolo
 nelle dimensioni (poche e dense pagine) ci indica anche le cause. Il motivo
 principale è la diminuzione nel numero di madri potenziali: dal 2007 al 2017 le
 donne residenti tra 15 e 45 anni sono passate da 12.240.000 a 10.960.000 (-
 10%). Nel frattempo è pure diminuita la loro propensione ad avere figli: in un
 decennio il tasso di fecondità è sceso da 1,42 a 1,34 figli per donna (-6%). A
 trainare tale declino è stata la fecondità delle donne straniere, passata da 2,31
 a 1,97 figli per donna (- 15%). Ma anche le donne con cittadinanza italiana
 hanno procreato di meno (da 1,32 a 1,26). Sullo sfondo, anche la riduzione dei
 flussi migratori internazionali, con un saldo migratorio con l’estero sceso dal
 7,5‰ nel 2007 al 3‰ nel 2017. Di seguito alcuni effetti di tale contrazione
 demografica sul sistema scolastico. 
  Appare evidente che le
 scelte di politica scolastica devono tenere conto delle onde lunghe della
 demografia e darsi una prospettiva temporale adeguata. Gli effetti di tale
 scenario demografico saranno vari. Innanzitutto, un minor fabbisogno e dunque
 una contrazione degli organici dei docenti, a partire dai gradi inferiori, per
 un totale di oltre 55.000 posti/cattedre persi fra 10 anni.. A regole vigenti
 si assisterà anche a un rallentamento nel turnover dei docenti: i nuovi
 insegnanti immessi in ruolo saranno meno degli insegnanti che usciranno (per
 pensionamenti, ecc.). A soffrirne sarà il rinnovamento del corpo docente (e
 probabilmente anche l’innovazione didattica).
  
   
  Giustamente Stefano Molina,
 uno dei curatori della ricerca, ci avverte che non si tratta tanto di un
 problema immediatamente sindacale, quanto qualitativo: «Non ci saranno esuberi, ma di sicuro aumenterà un problema che già c’è:
 l’età avanzata degli insegnanti italiani. Oggi alle superiori abbiamo il 71%
 con più di 50 anni, contro il 37% del Giappone, Paese non certo giovane. Mentre
 abbiamo lo zero per cento sotto i 30 anni. Queste età cresceranno perché chi
 andrà in pensione non verrà sostituito da giovani leve e questo ridurrà, inevitabilmente,
 il grado di innovazione nella scuola, che parte sempre dall’energia delle forze
 fresche, dalla loro naturalmente maggiore carica di fantasia».
  Le  cifre fosche devono fornire l’occasione di una
 elaborazione della proiezione di lungo periodo per suggerire al Paese, «senza pretendere di dettar legge in tema di
 politica scolastica», precisa Molina, di affrontare il problema degli
 effetti sulla scuola, dotandosi di uno sguardo altrettanto lungo.
  Sarebbe utile pensare fin da
 ora all’utilizzo del “risparmio” di
 1.826.000 euro, calcolato citando i dati sulla Buona scuola del Miur, che si
 otterrebbe semplicemente attendendo la naturale contrazione di alunni e
 cattedre: «Sarebbe miope», spiega
 Molina, «leggere il demoltiplicatore
 demografico semplicemente come una voce di risparmio: la questione
 dell’istruzione e della formazione non può essere affrontata su un piano di
 mera quantità, ma con una logica che si ponga il problema della qualità.
 Investendo questo denaro nella scuola possiamo trasformarlo nell’opportunità di
 offrire ai nostri figli una scuola migliore: si pensi alla possibilità di
 sfruttare le risorse che avanzano per aprire le scuole al pomeriggio… Non per
 replicare il mattino, ma per sport, recupero, ulteriori opportunità di
 conoscenza musicale o artistica». aumento del numero medio di insegnanti per
 classe, come nel 1990 con l’introduzione del modulo didattico alle elementari,
 favorendo lo sviluppo di forme di co-progettazione interdisciplinare anche ai
 gradi superiori». Oppure puntare alla riduzione del numero medio di studenti
 per classe. Ad esempio, in Francia la «riforma Macron» ne prevede il
 dimezzamento nelle aree più problematiche (REP+, con un docente ogni 12
 alunni). Anche all’aumento del numero medio di insegnanti per classe, come nel
 1990 con l’introduzione del modulo didattico alle elementari, favorendo lo
 sviluppo di forme di co-progettazione interdisciplinare anche ai gradi
 superiori.
  In prospettiva siamo di
 fronte ad una grande questione che richiede una visione strategica: «La nostra», continua Molina, «è un’esortazione al Paese, comprese le
 persone che nell’istruzione lavorano, a guardare la scuola con minori
 tatticismi e a noi tra dieci anni: si pensi a quanto si potrebbe fare
 impiegando gli insegnanti in più per ridurre il numero di alunni per classe nei
 contesti socialmente più difficili, a maggior rischio dispersione, si pensi a
 una riflessione più ampia sul tema delle competenze, che in Italia sono state
 tradotte con un riduttivo “saper fare”, mentre nella sfida del futuro che
 attende i nostri figli la competenza più importante sarà il “saper pensare”».
  
  Antonio Salvati
   
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