E’ stato pubblicato nel marzo scorso l’ultimo libro di Eraldo Affinati, “Via dalla pazza classe. Educare per vivere” (Mondadori), uno “Zibaldone” di racconti e riflessioni che prendono spunto dall’esperienza di insegnante che l’autore ha vissuto in passato a scuola e continua a vivere oggi con la rete “Penny Wirton” – centri d’insegnamento della lingua italiana e di accompagnamento di minori stranieri che prendono il nome dal protagonista del romanzo per ragazzi “Penny Wirton e sua madre”, luoghi di accoglienza e d’integrazione, spazi aperti a centinaia di volontari e di ragazzi in alternanza scuola-lavoro, che mettono a disposizione le loro competenze, il loro tempo, la loro solidarietà, più o meno in tutta Italia, gratuitamente e in sedi spesso di fortuna -.
Il libro è un volume militante. Affinati descrive la vita di una scuola effettivamente un po’ “pazza”, le mille storie di studenti provenienti da tutti gli angoli del pianeta, i mille pensieri che ci interrogano, sul valore dell’istruzione, sulla possibilità di un mondo diverso, sul perenne referendum italiano di fronte al fenomeno migratorio, tra accoglienza e rifiuto.
In più Affinati registra e trasmette una tensione. Quella ad imparare, che vivono tanti ragazzi non dissimili, se non per una storia molto più difficile, dai “nostri” ragazzi. Quella a comprendere e comunicare quanto c’è di bello, di vero, di importante; quella ad insegnare, cioè. Che non è vista solo attraverso l’impegno degli adulti, bensì pure – e questo è entusiasmante – attraverso ragazzi italiani, coetanei, che scoprono il mondo dei migranti e dei rifugiati dal vero, non attraverso lo specchio deformante degli slogan della televisione o dei luoghi comuni dei social; e si sforzano di vivere l’avventura dell’incontro con l’Altro e della trasmissione del sapere con una passione, una dedizione e dei risultati, che non possono non lasciare commossi.
Nell’immagine dei ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento, che vanno male a scuola, e che invece si rivelano preziosi comunicatori della nostra cultura, vibrando felici nello sforzo di spiegare una parola o un concetto, tra lo stupore dei loro insegnanti di sostegno – “Come si spiega quello che vede?” “Non me lo spiego” -, c’è tutta la forza delle potenzialità insite in ogni vero incontro, in ogni vero cammino. E la metafora di quanto potrebbe essere diversa e meno autistica, e meno autoreferenziale, la nostra società. Facendo del bene a se stessa oltre che ad altri.
“Cosa significa voler raccogliere il testimone dalla generazione precedente per consegnarlo a quella che segue?”, si chiede Affinati. “Si tratta di assumere una diversa posizione esistenziale. Guardarci negli occhi, fare sul serio, prenderci cura l’uno dell’altro […]: a contare non saranno i discorsi che abbiamo escogitato, bensì il tentativo che sapremo intraprendere”, è la risposta.
Francesco De Palma
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