LETTURE

Una pandemia in Africa …

Un virus che passa da un animale all’uomo, un’infezione che approfitta della globalizzazione e si fa pandemia; una cura che non è disponibile. No, non stiamo parlando dell’epidemia da nuovo coronavirus che ha sconvolto la vita del pianeta, ma di un altro “tsunami”, abbattutosi sul mondo negli ultimi decenni del secolo scorso: l’AIDS.

Lo abbiamo relegato al fondo dei nostri pensieri, perché più difficile da trasmettere, perché si è diffuso in paesi più marginali e “dimenticabili”, perché si è trovato un trattamento. Ma è stato – è – un dramma. Sulla pandemia di AIDS e la risposta a quel virus nel continente africano si concentra il volume di Roberto Morozzo della Rocca “La strage silenziosa. Come l’Africa ha rischiato di morire di AIDS e come si è invertita la rotta”.

Nella prima metà del volume l’autore ricostruisce lo scenario: l’epidemia che fa strage a sud del Sahara fino a divenire la prima causa di morte tra i 15 e i 50 anni; ma anche l’inazione dei governi africani, che negano la diffusione dell’AIDS (spicca in questo senso la posizione del Sudafrica), per non indicare un problema senza poter offrire una soluzione, per acquiescenza nei confronti di agenzie internazionali che consigliavano politiche di sola prevenzione.

Già. E questo è l’altro corno della questione. L’insistenza per l’Africa sulla sola prevenzione da parte di molte agenzie internazionali. Anche dopo il 1996, quando si dispone di farmaci antiretrovirali finalmente efficaci. Ma l’introduzione della terapia – questa l’obiezione – avrebbe dovuto fare i conti a sud del Sahara con ostacoli troppo grandi, di natura ambientale, economica, professionale, culturale.

Il dilemma prevenzione-terapia, però, è un falso dilemma. Come scrive finalmente nel 2002 la prestigiosa rivista medica “The lancet”: “Cura e prevenzione sono inestricabilmente connesse, offrire la cura rafforza le misure di prevenzione, e la prevenzione è meno efficace senza la cura”.

A questa conclusione era già giunta la Comunità di Sant’Egidio – e qui si passa alla seconda metà del volume -.

Iniziando dal Mozambico, vincendo le resistenze di un governo dubbioso, impiantando laboratori di biologia molecolare, premessa diagnostica per un’efficace azione terapeutica, un sogno diventa realtà. Un sogno euroafricano, fatto e di prevenzione e di cura: DREAM (acronimo di Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition).

Quel che si coglie, nelle pagine de “La strage silenziosa”, è che DREAM non ha creato nulla di nuovo. E’ stato semplicemente un atteggiamento differente di fronte all’Africa, il voler trattare gli africani come europei. Nelle parole dell’ideatrice di DREAM, la dr.ssa Cristina Marazzi, il progetto intendeva “dimostrare che la terapia era possibile anche in Africa, allo stesso livello di qualità e di eccellenza che aveva permesso grandi successi nel ‘primo mondo’”.

C’è qui il rifiuto radicale di ogni afropessimismo, per cui in un “altrove” “di tenebra” le cose sarebbero sempre difficili e le difficoltà insormontabili. Ma anche la consapevolezza, che potremmo definire “bergogliana” ante litteram, che siamo “fratelli tutti”. C’è la coscienza, per dirla con don Milani, che “ogni volta che Dio ci fa di questi doni” – parlava del progresso scientifico, del telaio automatico -, “Dio pensa di aver fatto un dono a tutta la famiglia dell’uomo. Una famiglia normale, dove il dono a uno è dono a tutti” (Esperienze pastorali). Gli antiretrovirali sono un dono all’Occidente o a tutta l’umanità? Questo ci si è chiesti a DREAM in quegli anni.

La ricostruzione di Morozzo della Rocca ci restituisce una success story che è insieme una prospettiva di rinascita africana – belle le storie dei pazienti sottopostisi alla terapia antiretrovirale e poi coinvoltisi in un movimento di attivisti e attiviste desiderosi di sostenere e diffondere il programma, capaci di sperare e lottare non solo per sé, ma anche per un circuito più vasto e, alla fin fine, per un intero continente – e di fraternità globale. Che è figura di quel che potrebbe accadere se davvero ognuno cominciasse a guardare alle altrui ferite come se si fosse “sulla stessa barca”.

Francesco de Palma

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