Ma che la sala romana dove ho assistito alla proiezione dell’indimenticabile La tartaruga rossa, tra gli ultimi titoli 2016 dell’animazione mondiale, sarebbe stata quasi esclusivamente popolata da ultra-maggiorenni, mentre i pochi bambini presenti sarebbero stati a malapena sopportati nelle loro – inevitabili – piccole intemperanze, non l’avrei molto creduto possibile.
Invece, proprio così è accaduto, per un lungometraggio che – inizialmente programmato come evento per soli tre giorni – è invece stato inopinatamente e fortunatamente messo in regolare programmazione in alcune sale italiane.
Michaël Dudok de Wit |
La storia raccontata in questa pellicola tocca con garbo suggestioni e sentimenti universali: dalla paura alla solitudine, dalla ricerca alla fuga, dalla compagnia degli affetti alla lacerazione della separazione, dalla sempre inattesa forza del male alle infinite possibilità del bene, dal rimorso alla tenerezza.
Tutto comincia con un naufragio, per approdare laddove ho detto, nei sentieri e labirinti dell’umano; il tutto narrato senza parole, solo con suoni e colori, con dramma e poesia, dove gli animali – come in antico – diventano metafora e riscatto.
La magia della narrazione, che si interrompe dopo (appena) 80 minuti, lascia il pubblico commosso e un po’ spaesato, ma anche – credo – migliore nell’animo.
Non so se sia questa la frontiera dell’animazione del tempo a venire, una sorta di educazione sentimentale per adulti avvezzi a ben altre “emozioni” di fronte al grande schermo. Spero però sia proprio così.
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