Il sorprendente incantesimo della famiglia Shtisel
Non è facile – per buona parte dell’umanità contemporanea – trovare immediati motivi di attrazione con l’ambiente descritto nella serie TV Shtisel. Eppure, questo programma ha inaspettatamente oltrepassato i confini di Israele – dove ha esordito per yes Studios nel 2013 – e sta facendo parlare di sé a molte insospettate latitudini. Il racconto è giunto, con molte attese e grandi richieste, alla sua terza serie, accessibile dal 25 marzo – dopo quattro anni dalla fine dei precedenti episodi – sulla piattaforma Netflix.
Haredìm
Che cosa avviene in Shtisel di così intrigante? Il racconto si svolge ai nostri tempi, ma per certi aspetti è un tuffo nel passato remoto dell’ebraismo mitteleuropeo: gli Shtisel, infatti, sono una famiglia di Haredìm, una corrente dell’ebraismo che – con molta approssimazione – potremmo definire “tradizionalista”.
Chi sono esattamente? Difficile a dirsi in poche parole. Essi si rifanno a grandi maestri ebrei vissuti nell’Europa orientale del XVIII secolo: vivono tra Israele, America del Nord ed Europa. Osservando una scrupolosa separazione tra uomini e donne, intessono prevalentemente relazioni sociali interne alla comunità, in contesti di famiglie numerose, di modesta condizione economica, dedicando la maggior parte del tempo (in particolare gli uomini) allo studio delle scritture ebraiche nelle scuole religiose. Le famiglie combinano matrimoni con il ricorso a sensali di professione. E poi, hanno un rapporto complicato con la modernità: ad esempio, diffidano della televisione, temono internet ed usano prevalentemente telefoni cellulari con funzioni limitate, per non rischiare di avere accesso a messaggi dal contenuto inappropriato. Insomma, quanto di più lontano dai gusti e dallo stile di vita prevalente nelle nostre società europee.
Conflitti e sentimenti universali
Eppure, il racconto delle vicende di Akiva, Shulem, Giti, Lippe, Nukhem – per non citare che alcuni dei nomi, per noi un po’ esotici, dei protagonisti – ha “incantato” molti. Non c’è nessuna immagine “estrema” per intercettare la visione, né facilitazione all’ascolto dei dialoghi, che si svolgono rigorosamente in ebraico e yiddish, con sottotitoli: ma anche in luoghi assai distanti – come l’Italia – questa storia ha conquistato numerosi estimatori. Ha osservato Barbara Uglietti – nella sua conversazione con la studiosa e regista Miriam Camerini – che Shtisel
[s]emplicemente, piace a tutti. Piace ai non ebrei che abbiano voglia di conoscere un mondo altrimenti inaccessibile; piace agli ebrei che ci si riconoscono; e forse piacerebbe anche a chi, nella comunità haredi, si vedesse rappresentato. Ipotesi difficilmente verificabile visto che a Geula [il quartiere gerosolimitano di Israele dove vivono gli Shtisel; n.d.r.], a Mea Shearim, a Bnei Brak la tecnologia non è esattamente il core business. E nelle case la Tv non c’è (o non ci dovrebbe essere).
Il racconto prende avvio dal dissidio tra il talento pittorico di Akiva e la tradizione ostile del suo ambiente per le arti figurative. Ma è solo uno dei fronti sui quali si scontreranno le generazioni: c’è il rifiuto della sposa prescelta e la ricerca dell’amore osteggiato, la coltivazione degli interessi personali al di là del sospetto comunitario e del conformismo, le tensioni e le opposizioni della vita familiare, tra generazioni e tra i singoli…
Tutto raccontato con acume, rispetto, molta ironia e grande abilità narrativa, sia nelle descrizioni che nell’interpretazione – non facile – dei ruoli. Ha detto a Fiammetta Martegani in proposito Dov Glickman, il bravissimo attore che nella serie riveste i difficili panni del pater familias Shulem:
le tensioni tra padre e figlio attraversano qualsiasi società nel mondo. […] Il segreto di Shtisel è quello di farci immergere in un microcosmo in cui ognuno riesce facilmente a identificarsi con personaggi differenti grazie alle sfaccettature con cui sono stati descritti. E tutto il processo viene stimolato dalla curiosità verso un mondo misterioso e molto particolare, che è quello degli haredìm. […] I genitori, in tutte le società del mondo, credono sempre di sapere cosa sia la cosa giusta per i propri figli. E Shulem vuole che Akiva si sposi e metta la testa a posto, lasciando perdere le sue velleità artistiche. Ma Shulem è anche un rabbino, e assume, come tale, per il suo personaggio, la capacità di ascoltare e comprendere il punto di vista altrui. Cosa non sempre facile: “Due ebrei, tre opinioni”, dice il detto ebraico. Shulem discute con Akiva, prova a consigliarlo, perde qualche battaglia con lui, ci riflette su, borbotta: insomma interpreta a perfezione l’aspetto dialettico dell’ebraismo. Ma soprattutto è un padre che ama suo figlio, che sta crescendo insieme a lui. E non vuole rischiare di perderlo, come Abramo durante il sacrificio [propriamente la “legatura”, secondo la lezione ebraica, n.d.r.], di Isacco. Sono tutti archetipi dalla portata universale.
Il fascino del racconto
Qualcuno ha interpretato il successo di Shtisel invocando
il memento che siamo tutti umani e uguali al di là delle fedi, dei riti e dei costumi; amiamo allo stesso modo. E poi questa comunità chiusa è carica di fascinazione; un po’ per la sua adesione a una vita di valori semplici; un po’ perché è come guardare con occhi di antropologo una civiltà lontana che pure ci appartiene, che conosciamo in certi riferimenti culturali, nelle immagini degli ashkenaziti della vecchia Europa.
Non so se il riferimento all’antropologia sia del tutto convincente. Io ho comunque visto con grande e indecifrato piacere le prime due serie e ho iniziato, impaziente, la terza. Preferisco condividere in proposito quanto ha scritto lo scrittore e giornalista spagnolo Sergio Del Molino sul fascino di questo racconto, perché è vero che
è molto più difficile narrare che tenere una conferenza. [I] personaggi di Shtisel – guidati da quell’Akiva dai grandi occhi verdi, di cui ci si innamora fin dal primo momento – sono tutti estremamente rotondi e fanno quello che tutti noi facciamo: restare in piedi un mondo che trema [Haredì significa anche “tremante” davanti agli occhi di Dio; n.d.r.]. Non sono caricature di fanatici religiosi, ma esseri deboli e contraddittori. Si innamorano di chi non dovrebbero e hanno figli a cui non sanno come dire ti amo. Raccontare tutto ciò con il linguaggio della TV commerciale e convincere qualsiasi spettatore a capire la tristezza di Akiva senza sapere cosa sia una Yeshiva né il motivo per cui tocca la mezuzah quando entra in una casa, è un risultato alla portata di pochissimi narratori.
Provare per credere. E buona visione, a chi vorrà…
Paolo Sassi
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Visti l’acume e la competenza di Paolo Sassi, encomiabili anche per l’empatia con cui parla di un argomento così arduo, solo un paio di perfezionamenti linguistici: haredì, singolare = tremante; haredìm, plurale = tremanti. L’acca iniziale, con cui si indicano tre diverse lettere (hei, het e haf) è sempre aspirata e sonante, e si sente: “i” haredìm, non “gli” come fossero “aredìm”.
E poi, ahimè, l’errore che pare impossibile estirpare, ancora dopo millenni di storia: non c’è MAI stato il “sacrificio” di Isacco, bensì la “legatura”! Abramo era sì pronto a quel sacrificio, ma il Signore Benedetto ha fermato la sua mano, indicando così – parliamo di più di 4000 anni fa, quando presso moltissimi popoli era cosa normale – che il sacrificio umano nell’ebraismo era assolutamente PROIBITO!!!