Mi colpisce sempre quando qualcuno viene ancora sbeffeggiato – o peggio – per il colore della propria pelle, che in fondo è – tra i tanti aspetti variabili della vita – uno di quelli che non possiamo scegliere, anche se si manifesta per primo e con evidenza agli occhi degli altri.
Non è purtroppo una novità: l’ottimo Mauro Valeri – studioso del fenomeno e di cui ho già apprezzato il libro dedicato alla vicenda umana e sportiva di Leone Jacovacci – dedicò alcuni anni fa un preoccupato e documentato volume (Che razza di tifo. Dieci anni di razzismo nel calcio italiano) all’argomento, che resta – evidentemente – ancora di grande attualità.
Questa volta, Muntari sembra averle provate tutte. Ha dapprima tentato – amichevolmente – di rabbonire la curva; ha poi chiesto – inutilmente – l’intervento dell’arbitro Minelli, che lo ha invece ammonito per proteste. Cosicché, seccato ed amareggiato, ha infine abbandonato il campo. Risultato: una giornata di squalifica.
Mi ha però impressionato un particolare nel comportamento di Muntari, che pure è uomo dal carattere impulsivo. È accaduto durante la partita, molto prima dell’epilogo, alla fine del primo tempo. Accortosi che tra quanti lo dileggiavano c’era anche un bambino, a ciò “incitato” dalla sua famiglia, l’atleta si è avvicinato alla curva, si è presentato al piccolo, ha provato a spiegare che trattare così un calciatore nero è sbagliato; infine, gli ha regalato la sua maglia.
Muntari e l’arbitro Minelli |
Non so se all’Alto Commissario ONU per i diritti umani Zeid Ra’ad al-Hussein, che ha parlato dell’uscita dal campo di Muntari come «esempio nella lotta al razzismo», sia stato raccontato anche questo gesto del calciatore africano; né se quello di domenica scorsa sarà – auspicabilmente – un momento di svolta nella lotta contro il razzismo ed i giudici sportivi sapranno – o vorranno – rivalutare diversamente quanto accaduto nello stadio cagliaritano.
Ma il contegno – apparentemente inutile – di Muntari (e specialmente quel tentativo di “umanizzazione” compiuto all’indirizzo dei suoi denigratori) vale, secondo me, almeno quanto molti discorsi.
Paolo Sassi
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