La paura è un dèmone
L’ultimo libro di Mario Giro, La globalizzazione difficile (Mondadori),
è prezioso: cerca di interpretare, comprendere e trovare una spiegazione ai
fenomeni dell’attualità internazionale e non. Assomiglia a un manuale della
realtà di oggi e prova a rispondere alle domande più urgenti del nostro tempo,
rendendo i viaggiatori del Terzo millennio più consapevoli sulle possibili mete
del futuro. Cosa non facile. Nel suo ultimo libro Rampini giustamente afferma
che viaggiamo sempre di più, ma capiamo sempre di meno. Il mondo nella sua
complessità ci disorienta. Per questo abbiamo bisogno di libri, come quello di
Mario Giro, per entrare in possesso di chiavi interpretative per orientarci e
individuare le vie di un futuro migliore, considerando i vincoli che pesano su
di noi, i condizionamenti del passato, le pressioni provenienti da altre
nazioni.
è prezioso: cerca di interpretare, comprendere e trovare una spiegazione ai
fenomeni dell’attualità internazionale e non. Assomiglia a un manuale della
realtà di oggi e prova a rispondere alle domande più urgenti del nostro tempo,
rendendo i viaggiatori del Terzo millennio più consapevoli sulle possibili mete
del futuro. Cosa non facile. Nel suo ultimo libro Rampini giustamente afferma
che viaggiamo sempre di più, ma capiamo sempre di meno. Il mondo nella sua
complessità ci disorienta. Per questo abbiamo bisogno di libri, come quello di
Mario Giro, per entrare in possesso di chiavi interpretative per orientarci e
individuare le vie di un futuro migliore, considerando i vincoli che pesano su
di noi, i condizionamenti del passato, le pressioni provenienti da altre
nazioni.
Il libro offre numerosi spunti e
suggestioni. Vorrei soffermarmi, in particolar modo, su quelle dedicate alla paura
che è – affermava Bauman – il dèmone più sinistro del nostro tempo: «paura e odio hanno le stesse origini e si
nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere
tutta la vita in compagnia reciproca. In molti casi non solo sono nati insieme
ma possono solo morire insieme. La paura deve per forza cercare, inventare e
costruire gli obiettivi su cui scaricare l’odio mentre l’odio ha bisogno della
spaventosità dei suoi obiettivi come ragion d’essere: si rimpallano a vicenda e
possono sopravvivere solo così». La
paura è anche il risultato demografico di una società con meno giovani e più
anziani, quindi più fragile ed esposta, sostiene efficacemente Mario Giro. La
paura crea difficoltà al convivere insieme, in un mondo in cui siamo comunque
destinati a stare insieme. La paura non ha bisogno di spiegarsi, non teme
dimostrazioni né ragionamenti, è vitale in sé perché intuitiva. Ancora Bauman
aggiunge : «le paure senza sbocco e
perciò tossiche non possono riversarsi sulle loro vere cause […] ma possono
facilmente e tangibilmente rovesciarsi su chi appare e si comporta da straniero,
dagli ambulanti ai mendicanti». Certo viviamo in un tempo difficile
caratterizzato da violenza diffusa, guerra e terrorismo. Uno dei settori
economici di più ampia espansione nel mondo è proprio quello della sicurezza:
dalla diffusione delle armi alle porte blindate e panic rooms, dagli allarmi
alle agenzie di sicurezza – pubbliche e private –, ai contractors, ai sistemi
tecnologici, videocamere nelle città, controlli ecc. Tutti cercano di
proteggersi sempre più e la paura si diffonde. Eppure, il paradosso è che
abbiamo il privilegio di vivere in un’epoca in cui la sicurezza della vita
personale e collettiva è certamente la più alta mai goduta dagli esseri umani
nella storia. Non è facile fronteggiare
la paura. Essa – spiega Giro – “si
diffonde in maniera pervasiva e senza frontiere, crea un’emozione incontrollata
e contagiosa. Si tratta di un avversario molto insidioso della convivenza
perché intacca la fiducia. Come un virus, la paura non ha chiare origini,
funziona con il metodo dello spillover (passa da un corpo all’altro ed è
difficile capirne l’origine) e non ha bisogno di giustificazioni né
dimostrazioni. Colpisce ogni corpo sociale, ogni status, ogni cultura, ogni
nazione e ogni tipo di regime”.
suggestioni. Vorrei soffermarmi, in particolar modo, su quelle dedicate alla paura
che è – affermava Bauman – il dèmone più sinistro del nostro tempo: «paura e odio hanno le stesse origini e si
nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere
tutta la vita in compagnia reciproca. In molti casi non solo sono nati insieme
ma possono solo morire insieme. La paura deve per forza cercare, inventare e
costruire gli obiettivi su cui scaricare l’odio mentre l’odio ha bisogno della
spaventosità dei suoi obiettivi come ragion d’essere: si rimpallano a vicenda e
possono sopravvivere solo così». La
paura è anche il risultato demografico di una società con meno giovani e più
anziani, quindi più fragile ed esposta, sostiene efficacemente Mario Giro. La
paura crea difficoltà al convivere insieme, in un mondo in cui siamo comunque
destinati a stare insieme. La paura non ha bisogno di spiegarsi, non teme
dimostrazioni né ragionamenti, è vitale in sé perché intuitiva. Ancora Bauman
aggiunge : «le paure senza sbocco e
perciò tossiche non possono riversarsi sulle loro vere cause […] ma possono
facilmente e tangibilmente rovesciarsi su chi appare e si comporta da straniero,
dagli ambulanti ai mendicanti». Certo viviamo in un tempo difficile
caratterizzato da violenza diffusa, guerra e terrorismo. Uno dei settori
economici di più ampia espansione nel mondo è proprio quello della sicurezza:
dalla diffusione delle armi alle porte blindate e panic rooms, dagli allarmi
alle agenzie di sicurezza – pubbliche e private –, ai contractors, ai sistemi
tecnologici, videocamere nelle città, controlli ecc. Tutti cercano di
proteggersi sempre più e la paura si diffonde. Eppure, il paradosso è che
abbiamo il privilegio di vivere in un’epoca in cui la sicurezza della vita
personale e collettiva è certamente la più alta mai goduta dagli esseri umani
nella storia. Non è facile fronteggiare
la paura. Essa – spiega Giro – “si
diffonde in maniera pervasiva e senza frontiere, crea un’emozione incontrollata
e contagiosa. Si tratta di un avversario molto insidioso della convivenza
perché intacca la fiducia. Come un virus, la paura non ha chiare origini,
funziona con il metodo dello spillover (passa da un corpo all’altro ed è
difficile capirne l’origine) e non ha bisogno di giustificazioni né
dimostrazioni. Colpisce ogni corpo sociale, ogni status, ogni cultura, ogni
nazione e ogni tipo di regime”.
Nel nostro paese la paura si
concentra oggi su alcuni obiettivi, tra cui il primo sono gli «stranieri». Straniero
è tutto ciò che pare aggredire il nostro stile di vita. La paura è ingegnosa:
opera confondendo i piani tra immigrati, rifugiati, nomadi, musulmani,
terroristi ma anche «tedeschi» che vogliono comandare in Europa, «asiatici» che
comprano tutto (però se acquistano le squadre di calcio sono i benvenuti). La
paura va a ondate: l’altro ieri gli sbarchi, ieri il terrorismo, oggi le banche
e i nostri risparmi. La paura non ha memoria. Infatti, non siamo alla nostra
prima crisi economica, le migrazioni si protraggono da decenni, la crisi del
mondo islamico ha diversi decenni, il terrorismo l’abbiamo prodotto anche noi in
casa e via dicendo. Ha ragione Mario Giro quando afferma che la paura “non propone alternative: vuole solo la fine
di qualcosa, un cambio repentino. La paura può fare ammalare un’intera società
senza che ci si ricordi quand’è cominciata; si trasmette con la cultura del
sospetto, l’ignoranza, il disprezzo, la dimenticanza. Per questo si tratta
anche di un acerrimo nemico della democrazia: quest’ultima è nata proprio per
liberare l’uomo dalla paura attraverso un patto di regole certe, condiviso da
tutti e in cui tutti abbiano un loro spazio e siano messi davanti alle stesse
condizioni e responsabilità solo per il fatto di essere cittadini”.
concentra oggi su alcuni obiettivi, tra cui il primo sono gli «stranieri». Straniero
è tutto ciò che pare aggredire il nostro stile di vita. La paura è ingegnosa:
opera confondendo i piani tra immigrati, rifugiati, nomadi, musulmani,
terroristi ma anche «tedeschi» che vogliono comandare in Europa, «asiatici» che
comprano tutto (però se acquistano le squadre di calcio sono i benvenuti). La
paura va a ondate: l’altro ieri gli sbarchi, ieri il terrorismo, oggi le banche
e i nostri risparmi. La paura non ha memoria. Infatti, non siamo alla nostra
prima crisi economica, le migrazioni si protraggono da decenni, la crisi del
mondo islamico ha diversi decenni, il terrorismo l’abbiamo prodotto anche noi in
casa e via dicendo. Ha ragione Mario Giro quando afferma che la paura “non propone alternative: vuole solo la fine
di qualcosa, un cambio repentino. La paura può fare ammalare un’intera società
senza che ci si ricordi quand’è cominciata; si trasmette con la cultura del
sospetto, l’ignoranza, il disprezzo, la dimenticanza. Per questo si tratta
anche di un acerrimo nemico della democrazia: quest’ultima è nata proprio per
liberare l’uomo dalla paura attraverso un patto di regole certe, condiviso da
tutti e in cui tutti abbiano un loro spazio e siano messi davanti alle stesse
condizioni e responsabilità solo per il fatto di essere cittadini”.
La paura genera l’ossessione dell’identità.
Spesso – come scrive Amin Maalouf – ci proclamiamo diversi o ostili agli altri
perché in realtà siamo troppo simili a loro. La ricerca morbosa di identità è
un processo di insicurezza: temo di non sapere chi sono, allora me lo invento; sento
la mia identità troppo debole e me ne cerco una diversa o scelgo un nemico per
contrappormi. Avverte Mario Giro che può divenire una politica: l’incubo delle
frontiere, ad esempio, legato a presunti criteri di sangue o di cultura. Così
mentre gli oggetti si globalizzano, i «soggetti si tribalizzano» – come
sostiene Régis Debray – e con loro anche i popoli e gli Stati. Rifarsi
continuamente una nuova identità diviene la regola anche nella vita
individuale. Marco Aime denuncia «l’eccesso
di attenzione che oggi si muove attorno alle culture, alle diversità, alle
identità […] É vano cercare purezza nelle culture […] l’identità è un fatto di
decisioni».
Spesso – come scrive Amin Maalouf – ci proclamiamo diversi o ostili agli altri
perché in realtà siamo troppo simili a loro. La ricerca morbosa di identità è
un processo di insicurezza: temo di non sapere chi sono, allora me lo invento; sento
la mia identità troppo debole e me ne cerco una diversa o scelgo un nemico per
contrappormi. Avverte Mario Giro che può divenire una politica: l’incubo delle
frontiere, ad esempio, legato a presunti criteri di sangue o di cultura. Così
mentre gli oggetti si globalizzano, i «soggetti si tribalizzano» – come
sostiene Régis Debray – e con loro anche i popoli e gli Stati. Rifarsi
continuamente una nuova identità diviene la regola anche nella vita
individuale. Marco Aime denuncia «l’eccesso
di attenzione che oggi si muove attorno alle culture, alle diversità, alle
identità […] É vano cercare purezza nelle culture […] l’identità è un fatto di
decisioni».
Come uscire dalla paura? Con la
simpatia. Non a caso Mario Giro cita Paolo VI che alla fine del concilio
Vaticano II parlò della parabola del buon samaritano come paradigma della
spiritualità dell’intero Concilio, dicendo: «una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani
[…] lo ha tutto pervaso». La simpatia ci porta a ridurre il peso dei nostri
problemi interni, a ridimensionarci. In tempi di diffidenza e di paura, la
grande sfida del nuovo umanesimo è quella di una simpatia senza confini. Non
significa apprezzare tutto, precisa Mario Giro. Occorre comprendere senza
condannarsi alla rassegnazione o all’indifferenza. Giudicare è utile, ma per
saper farlo bene prima è necessario conoscere, imparare che talvolta saper
stare alla finestra del mondo, saper attendere, è molto importante. La simpatia
ci aiuta a reagire senza isteria: un dialogo che sappia farsi cultura e quindi
diventare una politica. Simpatia come amicizia, che non è un vago sentimento.
Scrive lucidamente Hannah Arendt: «è
difficile per noi comprendere la rilevanza politica dell’amicizia. Quando per
esempio leggiamo in Aristotele che la philia, l’amicizia tra i cittadini, è una
delle condizioni fondamentali del benessere della città, tendiamo a pensare che
non stia parlando di altro se non dell’assenza di fazioni e di guerra civile
tra di esse. Per i Greci al
contrario, l’essenza dell’amicizia consisteva nel discorso. Essi sostenevano
che solo un costante scambio di parole poteva unire i cittadini in una polis.
Nel discorso si rendeva manifesta l’importanza politica dell’amicizia, e
l’umanità che la caratterizza. Il dialogo (a differenza del colloquio intimo in
cui gli individui parlano di sé), per quanto intriso del piacere relativo alla
presenza dell’amico, si occupa del mondo comune, che rimane ‘inumano’ in senso
del tutto letterale, fino a che delle persone non ne fanno costantemente
argomento del discorso tra loro. […] Noi umanizziamo ciò che avviene nel mondo
e in noi stessi solo parlandone e, in questo parlare, impariamo a diventare
umani. I Greci chiamavano filantropia questa umanità che si realizza nel
dialogo dell’amicizia, poiché essa si manifesta nella disponibilità a
condividere il mondo con altri uomini».
simpatia. Non a caso Mario Giro cita Paolo VI che alla fine del concilio
Vaticano II parlò della parabola del buon samaritano come paradigma della
spiritualità dell’intero Concilio, dicendo: «una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani
[…] lo ha tutto pervaso». La simpatia ci porta a ridurre il peso dei nostri
problemi interni, a ridimensionarci. In tempi di diffidenza e di paura, la
grande sfida del nuovo umanesimo è quella di una simpatia senza confini. Non
significa apprezzare tutto, precisa Mario Giro. Occorre comprendere senza
condannarsi alla rassegnazione o all’indifferenza. Giudicare è utile, ma per
saper farlo bene prima è necessario conoscere, imparare che talvolta saper
stare alla finestra del mondo, saper attendere, è molto importante. La simpatia
ci aiuta a reagire senza isteria: un dialogo che sappia farsi cultura e quindi
diventare una politica. Simpatia come amicizia, che non è un vago sentimento.
Scrive lucidamente Hannah Arendt: «è
difficile per noi comprendere la rilevanza politica dell’amicizia. Quando per
esempio leggiamo in Aristotele che la philia, l’amicizia tra i cittadini, è una
delle condizioni fondamentali del benessere della città, tendiamo a pensare che
non stia parlando di altro se non dell’assenza di fazioni e di guerra civile
tra di esse. Per i Greci al
contrario, l’essenza dell’amicizia consisteva nel discorso. Essi sostenevano
che solo un costante scambio di parole poteva unire i cittadini in una polis.
Nel discorso si rendeva manifesta l’importanza politica dell’amicizia, e
l’umanità che la caratterizza. Il dialogo (a differenza del colloquio intimo in
cui gli individui parlano di sé), per quanto intriso del piacere relativo alla
presenza dell’amico, si occupa del mondo comune, che rimane ‘inumano’ in senso
del tutto letterale, fino a che delle persone non ne fanno costantemente
argomento del discorso tra loro. […] Noi umanizziamo ciò che avviene nel mondo
e in noi stessi solo parlandone e, in questo parlare, impariamo a diventare
umani. I Greci chiamavano filantropia questa umanità che si realizza nel
dialogo dell’amicizia, poiché essa si manifesta nella disponibilità a
condividere il mondo con altri uomini».
Antonio Salvati
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