FATTI

Riflessioni sul prendersi cura degli altri (che è prendersi cura anche di sé)

Due articoli apparsi lunedì hanno centrato la loro attenzione su un tema spesso negletto, ma centrale per garantire a ogni membro della società un’accettabile qualità della vita, ed alla società nel suo insieme un degno standard di umanità. Parliamo del tema della cura dei più deboli. 

Perché ognuno di noi è stato, può essere, e sarà debole.
E perché la grandezza di una società si misura dalla sua capacità di essere umana con i suoi componenti più piccoli.
Entrambi gli articolisti hanno inteso prendere posizione di fronte agli episodi di maltrattamenti e di incuria verso anziani, disabili, minori, di cui la cronaca degli ultimi giorni è stata purtroppo ricca.
Sull’“Huffington Post” Vanna Iori, deputata del PD, docente universitaria, ha voluto ricordare come tutto ciò che ruota attorno alla cura delle persone debba, sì, fare riferimento “a un solido bagaglio di competenze professionali”, ma senza dimenticare la necessità “di un atteggiamento moralmente responsabile”. “Il lavoro di cura”, ha scritto, “richiede preparazione, ma ha bisogno anche di una competenza sull’ascolto, le parole, gli sguardi. Le competenze tecniche saranno arricchite da quelle competenze della vita emotiva che consentono di mantenere nel tempo lo sguardo iniziale, indispensabile per continuare a coltivare la motivazione, l’autenticità di un incontro personale”. “Curare senza aver cura”, ha concluso, “è il paradosso che rende anonime le strutture dei servizi, e può persino farle diventare disumane come nei casi che arrivano alle cronache”. 
Su “Avvenire” Eraldo Affinati, scrittore e intellettuale, ci ha ricordato come “non bisogna illudersi sui rimedi da molti suggeriti allo scopo di superare [gl]i abusi: telecamere, inasprimento delle pene, albo degli educatori, controlli amministrativi. Sono tutte cose giuste, sulla carta. Ma forse la vera soluzione dovremmo cercarla in un mutamento culturale che ci spinga a evitare l’isolamento dei più deboli: siano essi i nostri genitori giunti in prossimità dell’ultima stazione, i portatori di handicap, i bambini piccoli, i nuovi arrivati ancora privi dei diritti politici”. 
Il nodo della questione è alla fin fine non tecnico, né giuridico, ma prettamente umano, culturale e relazionale. 
E non farebbe male a nessuno appuntarsi la bella frase con cui Affinati pone termine al proprio contributo: “Di una cosa sono convinto: non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti, ma anche i sani imparano dai malati, i robusti dai gracili, gli intelligenti dagli stupidi, gli italiani dagli stranieri. Quello che apprendono risulta così prezioso che non può essere nemmeno comunicato”. 
Sì, prendersi cura degli altri è – alla fin fine – prendersi cura di sé, della propria umanità da guarire e da far crescere.

Francesco De Palma
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