FATTI

Cent’anni da Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni

Quest’anno ricorre il centenario di Metz Yeghern (il Grande Male), come gli armeni chiamano il genocidio. Una memoria ricordata ogni 24 aprile, dal momento che diverse ricostruzioni storiche hanno indicato in questo giorno, nel 1915, l’inizio della persecuzione che avrebbe eliminato via in pochi mesi un milione e mezzo di armeni, assassinati, deportati in marce insensate e crudeli, internati in campi della morte.  

Alla mezzanotte del 24 aprile, una domenica, decine di notabili armeni che vivevano a Istambul furono arrestati e condotti con la forza alla centrale di polizia. Si erano vestiti di tutto punto, indossavano colletti immacolati e gli abiti migliori, come se dovessero partecipare ad una cerimonia. Erano tutti uomini di lettere. Li misero in cella senza dare alcuna spiegazione, e alla fine li deportarono ad Ayash oppure a Chankiri. Il primo gruppo andò incontro alla sorte peggiore: nessuno sopravvisse ad Ayash. Quelli deportati a Chankiri, invece, furono uccisi un po’ alla volta… molti morirono di fame. Altri vennero giustiziati. 

Non sono parole tratte da un libro di storia, ma dal fortunato romanzo di Elif Shafak, La bastarda di Istanbul, che narra la storia che intreccerà in maniera straordinaria le vite di due ragazze dei nostri tempi. Una turca di Istambul, Asya; l’altra viene dall’Arizona e si chiama Armanoush Tchakhmakhchian, figlia di madre americana e padre armeno. Una serie di coincidenze le farà incontrare. Quando Armanoush arriva a Istanbul in cerca delle sue radici e rivela di essere armena raccontando la sorte della sua famiglia in esilio forzato, la reazione che incontra, sia in Asya che nella sua famiglia, è sconcertante: c’è chi non sa niente, chi nega, chi pensa che ormai sono avvenimenti del passato ed è inutile ritirarli fuori. In quanto armena, Armanoush portava con sé lo spirito del proprio popolo da generazioni a generazioni, mentre i turchi sembravano non avere la stessa nozione di continuità con la propria ascendenza. Ha osservato acutamente la Shafak:


armeni e turchi vivevano in ordinamenti temporali diversi. Per i primi, il tempo era un continuum in cui il passato viveva nel presente e il presente generava il futuro. Per i secondi, invece, il tempo sembrava essere una linea spezzata: a un certo punto il passato finiva, e da quel punto cominciava il presente, e in mezzo non c’era altro che uno strappo.

La letteratura e l’espressione artistica nel suo complesso pone al centro l’essere umano e giova a costituire una mentalità comprensiva nei riguardi di tutti gli aspetti, dalla virtù all’abiezione. La realtà che la letteratura vuole raccontare è soprattutto l’esperienza umana, ha osservato giustamente Tzvetan Todorov, ricordandoci che Dante e Manzoni ci insegnano sulla condizione umana “quanto i più grandi sociologi o psicologi e che non esiste alcuna incompatibilità tra la prima e la seconda forma di sapere”.

Nel romanzo della Shafak riemerge prepotentemente il nodo della memoria, del passato che non è passato.  A tal proposito, Andrea Riccardi (autore di un volume pubblicato in questi giorni da Laterza La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo), ha ricordato giustamente sulle pagine di Avvenire:


C’è stata (e rimane) una resistenza a ricordare in modo ravvicinato un martirio che svela il vero volto del cristianesimo e ridimensiona drammi e problemi dei cristiani del benessere. L’amnesia ha spesso anestetizzato la coscienza cristiana lungo il Novecento. Dimenticare tante sofferenze ci ha reso insensibili a molti altri dolori. Eppure questi anni sono stati un vero secolo del martirio. Il Novecento si è aperto con la strage di massa dei cristiani nell’impero ottomano durante la Grande Guerra… 

La vicenda dolorosa dei cristiani armeni ci invita a non ridurre la storia del cristianesimo al nostro perimetro. Pertanto questo centenario non riguarda solo la Chiesa armena: deve toccare tutte le Chiese, perché – come sosteneva Giovanni Paolo II – nel sangue dei martiri i cristiani sono già uniti. Come, inoltre, non ricordare che questo centenario avviene proprio mentre assistiamo impotenti alla persecuzione dei cristiani nel Vicino Oriente. Quindi – aggiunge Riccardi – “la preghiera e la memoria delle nostre comunità nel giorno anniversario del genocidio sarebbe un segno importante nell’orizzonte difficile di oggi.

Papa Francesco, insieme con i vescovi della Chiesa armeno-cattolica, ha invocato la “Divina Misericordia perché ci aiuti tutti, nell’amore per la verità e la giustizia, a risanare ogni ferita e ad affrettare gesti concreti di riconciliazione e di pace tra le Nazioni che ancora non riescono a giungere ad un ragionevole consenso sulla lettura di tali tristi vicende”. A cento anni dal genocidio degli armeni, è urgente una stagione di pacificazione.

Antonio Salvati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *