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Io desidero la pace

Oggi
a Rodi, bella isola greca, non ci sono più ebrei. Nella città vecchia nei
pressi della Giuderia, tuttavia sopravvive il vecchio quartiere ebraico. Gli
ebrei erano presenti nell’isola fin dal XVI secolo. Una storia secolare con
varie vicissitudini. Per tanto tempo turco-ottomana, nel 1912 Rodi diviene
italiana. Il periodo della Rodi italiana termina nel 1948. Ma dal 1943 l’isola passa sotto il controllo nazista fino alla fine della guerra. Gli ebrei saranno deportati nel luglio
del 1944 ad Auschwitz-Birkenau.
A
questa storia appartiene Morris Sciarcon, protagonista del volume scritto a
quattro mani dal titolo significativo Io
desidero la pace. 
Uno degli autori è Andrea Sciarcon, figlio di Morris. Per
anni si è cimentato a ricostruire la vita del padre. Oggi le sue ricerche –
grazie al prezioso aiuto del coautore Fabrizio Nurra – si sono trasformate in
un libro avvincente https://iodesiderolapace.yolasite.com/ . La sua è una storia di un uomo che fugge dagli orrori
della guerra.
Da
Rodi è deportato, a 18 anni, ad Auschwitz e poi a Mauthausen e a Ebensee.
Sopravvissuto miracolosamente, si trasferisce a Roma. In un piccolo paese della
Sabina conosce la ragazza che diventerà sua moglie. Si trasferirà in Israele, un
destino segnato per i profughi e i sopravvissuti ebrei d’Europa. Ma, come dice
Mario Giro nella sua prefazione, “appena
la guerra si avvicina, quella con gli arabi, Morris la fugge di nuovo e torna
in Italia. Non vuole combattere, non lo ha mai voluto e mai lo vorrà”.
Desideroso
di vivere in pace, Morris Sciarcon abbandona anche questo paese e torna in
Italia. Aggiunge Mario Giro: “Il suo
mondo va in pezzi varie volte ma lui non si lamenta, continua a scappare, a
correre. In lui rivediamo il destino di tanti uomini semplici e anonimi che
ancora oggi fuggono dalle violenze di questo mondo senza recriminazioni, per
mettere in salvo se stessi e le loro famiglie dalla guerra”.
Non vuole
combattere, non lo ha mai voluto e mai lo vorrà.
Dall’Italia
prova l’Africa, la Rhodesia. Molti vi si stabiliscono perché si fanno buoni
affari e la vita è semplice. Anche a Morris inizialmente va bene, ha successo,
mette su un’impresa, fa fortuna. Fino a che la guerra non lo raggiunge di
nuovo. Questa volta si tratta del conflitto coloniale. Morris vende tutto e se
ne va anche questa volta. Pur perdendo molti soldi, fugge di nuovo: non ne
vuole proprio sapere. Ritorna a Roma, sua meta finale, dove sbarcherà il
lunario con difficoltà, con la moglie che fedelmente ha continuato a seguirlo.
Almeno a Roma la guerra non c’è. Muore giovane, a 53 anni, consumato dalle sue
fughe, dai campi, dalle privazioni, ma felice di non essere stato acchiappato
dalla guerra.
“Per sua scelta Morris – sottolinea acutamente
Mario Giro – resta un profugo quasi tutta
la vita e non si ferma mai. Se le forze lo avessero assistito si sarebbe mosso
ancora, almeno lo sognava. Il suo mondo va in pezzi varie volte ma lui non si
lamenta, continua a scappare, a correre. In lui rivediamo il destino da tanti
uomini semplici e anonimi che ancora oggi fuggono dalla violenze di questo
mondo senza recriminazioni, per mettere in salvo se stessi e le loro famiglie
dalla guerra. C’è una radicalità umana in tutto questo: la guerra come “madre
di tutte le povertà”, davvero la cosa più estranea ad ogni spirito umanistico,
veramente ciò da cui sempre fuggire”.
In
un tempo in cui rinasce lo spirito guerriero e il conflitto torna ad essere
popolare, quasi potesse risolvere i problemi, la storia di Morris è piccola ma
esemplare per la sua linearità: ci dice che l’unica lotta che vale è quella per
la vita. Non si tratta di evitare le proprie responsabilità, perché quella più
forte è proprio nei confronti dell’esistenza. Morris non sa spiegarlo con
parole articolate: per lui è quasi una spinta innata. Evitare la guerra
significa non sottomettersi allo spirito del male che divide, contrappone,
disprezza. Sembra che Morris non si lasci mai prendere dagli ardori sprigionati
dai grandi fenomeni storici che attraversa: la guerra al nazismo, la formazione
di Stati, il sionismo, le indipendenze ecc. Pare che ne sia disinteressato. Non
è così: segue tutto e, con una certa sua particolare sensibilità, avverte immediatamente
quando le cose stanno volgendo al peggio, avviandosi verso la guerra. Così
corre via. E’ il suo modo di restare umano in un mondo inumano. E’ la sua
contestazione alle logiche del contrasto. La sua scelta è simile a quella che
Vasilij Grossman chiama “la bontà della gente comune”, che non si sente, che
non parla. Secondo il grande scrittore russo davanti a tale forma di bontà
muta: “il male non può nulla”, si deve arrendere”.

Antonio
Salvati

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