FATTI

All'ombra dei cipressi. Quel cimitero "originale" di Roma

L’angelo del dolore (1894).

«Cala novembre
e le inquietanti nebbie
gravi coprono gli orti.
Lungo i giardini
consacrati al pianto
si festeggiano i morti».

Così veniva ricordato – in una canzone di qualche decennio fa – il mese di novembre.Oggi infatti, secondo la tradizione cattolica, si fa memoria dei defunti.
È una ricorrenza “debole” del nostro tempo, che con la fine della società rurale tende sempre di più ad esorcizzare (e “medicalizzare”) la morte e comincia anche a trascurare la pietà presso i cimiteri per i cari che non sono più in vita.
C’è un luogo a Roma, tuttavia, che – non facilissimo da utilizzare come luogo di sepoltura – sembra non soffrire troppo la disaffezione dei visitatori: si tratta di uno dei più “originali” cimiteri della Capitale, quello chiamato “degli inglesi”, “acattolico”, “protestante”, “di Testaccio”, “degli artisti” o semplicemente “della Piramide”. Si tratta di un sito per molti versi suggestivo, non troppo conosciuto dai romani ed invece assai frequentato dai turisti (non solo ma soprattutto anglofoni).
La pubblicazione recente di due volumi – quello erudito di Antonio Mennini Ippolito ma anche la nuova guida di Nicholas Stanley-Price – offre l’occasione per un approfondimento in una prospettiva non troppo esplorata: quella della presenza storica delle minoranze religiose nella “città del papa” prima della globalizzazione.
La definizione forse più utilizzata, quella di cimitero “acattolico”, rende infatti solo parzialmente conto della sua complessità: Giorgio Peyrot, da giurista, usò l’espressione “coacervo anonimo degli indistinti” per spiegare (e stigmatizzare) che i cosiddetti “acattolici” erano anche e piuttosto diversi tra di loro, oltre a non essere fedeli della Chiesa di Roma.
Sta di fatto che questo luogo, dall’inizio del 1700, comincia ad essere usato per la sepoltura – autorizzata o tollerata dai papi – di alcuni inglesi della corte degli Stuart in esilio. Assieme al cimitero ebraico dell’Aventino – cancellato sciaguratamente negli anni ’30 per fare posto al roseto comunale – e al cosiddetto cimitero “degli impenitenti” che era presso il Muro Torto, il cimitero di Testaccio sarà da allora luogo ufficiale di sepoltura – in terra, diversamente da quanto avveniva per i cattolici – di anglicani, luterani, ortodossi di varia nazionalità, che concludevano i loro giorni a Roma e gradivano esservi sepolti.
La fine  del potere temporale dei papi e i governi nazionali che si succedettero (quello monarchico sabaudo prima e quello repubblicano poi) si interesarono – non sempre con buoni propositi – al cimitero, che solo nel secondo dopoguerra troverà il suo assetto definitivo.

Vi sono stati accolti, col passare del tempo, anche appartenenti a religioni non cristiane, quali l’Islam, lo Zoroastrismo, il Buddismo e
il Confucianesimo, come pure uomini e donne non aderenti ad alcuna tradizione religiosa o di dichiarata fede laica.

Oggi il cimitero è amministrato da un consiglio di quattordici
ambasciatori accreditati
in Italia e residenti
a Roma, la maggior parte
dei quali proveniente
da nazioni a larga maggioranza
protestante o ortodossa
greca e russa.

I visitatori che vi entrano – quasi alla ricerca di un Père-Lachaise in minore – provano a scoprire le tombe più note del passato remoto (quelle di Keats o Shelley) o del passato prossimo, come quella di Antonio Gramsci, ed ammirano stupiti un luogo di improbabile quiete immerso nella congestione della città.
Ma la peculiarità di questo luogo è soprattutto nella sua storia, quella di minoranze religiose che hanno trovato nel tempo (e non sempre con facilità) forme, modi, spazi e luoghi originali per ricordare ed onorare come tutti – nella Roma “cattolica” – la vita e la memoria di chi è stato.

Paolo Sassi

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