La fragilità che è in noi
Sono tanti anni che lo psichiatra Eugenio Borgna ci aiuta a comprendere e a esplorare i diversi tratti della fragilità umana. Un piccolo e agile libro edito da Einaudi, La fragilità che è in noi, valorizza la fragilità perché essa ci fornisce la preziosa possibilità “di riflettere sugli aspetti luminosi e oscuri di una condizione umana che ha molti volti e, in particolare, il volto della malattia fisica e psichica, della condizione adolescenziale con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza e con le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione, ma anche il volto della condizione anziana lacerata dalla solitudine e dalla noncuranza, dallo straniamento e dall’angoscia della morte”(E. Borgna, La fragilità che è in noi, p. 3).
Per comprendere la propria fragilità e quella altrui, è fondamentale dotarsi di un linguaggio e di parole adeguate. Nella vita di tutti i giorni e, in particolare nella medicina, le parole rivestono un ruolo fondamentale. Le parole sono in grado di aiutare – sottolinea Borgna – di indicare un cammino, di recare una speranza.
Giustamente David Khayat, oncologo francese, ha evidenziato l’importanza psicologica e umana delle parole che si rivolgono ai pazienti e che ne possono rispettare o lacerare la dignità e la fragilità.
“La chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia sono ovviamente strumenti essenziali di cura dei tumori, ma a esse è necessario aggiungere – egli sostiene – un altro strumento: quello delle parole. […]. Le parole sono dotate di un immenso potere: sono in grado di aiutare, di indicare un cammino, di recare la speranza nel cuore dei malati che, nel momento in cui scendono nella voragine della sofferenza, hanno un infinito bisogno di dare voce alle loro emozioni e al loro dolore, che è dolore del corpo e dolore dell’anima. […] Una diagnosi comunicata in un corridoio o a una segreteria telefonica, un gesto ambivalente che lascia presagire indifferenza o preoccupazione, uno sguardo sfuggente nel momento di rispondere a una domanda: tutto può causare angoscia e disperazione” (ibidem, p. 11).
“L’esperienza di invecchiare, fino a qualche generazione fa, era un fatto di pochi, e limitata per lo più al mondo del benessere. Oggi, ovunque, è l’attesa di ogni vita. Si possono allontanare gli anziani dalle case, si possono allontanare dagli ambiti di vita – pensiamo alla presunta ineluttabilità degli istituti, una mentalità profondamente sbagliata che porta ad atti di disumanità, oltre che di follia pura, in termini economici e sociali, […] ma non si può eliminare quell’anziano che è in ognuno. Non si può rigettare quel continente anziano che è emerso, e quel corpo di anziano, quel viso di anziano che emerge dal mio corpo, dal mio viso, da ogni cuore”.
Ma la debolezza è una malattia? La vecchiaia è una malattia? E se la debolezza fosse invece anche una forza? Non a caso Borgna riporta le parole di san Paolo della seconda lettera ai Corinti (12,9 – 10) che ci dicono “qualcosa di ancora più essenziale, e di ancora più profondo sulla ragione d’essere della fragilità umana, che redenta di ogni fatica, si fa grazia”. E’ una categoria paolina e ha a che fare con la fede. E quindi anche con la vita, con il senso della vita, con il valore della preghiera, il senso della speranza. Come scrive ancora Riccardi ne La forza degli anni:
“Questo è un tratto antropologico fondamentale dell’essere cristiani: non disprezzare la debolezza, ma anche essere consapevoli che tale debolezza esiste già nei momenti di maggiore salute e vigore, già nel momento della ricchezza e del ruolo. In fondo siamo tutti lontani da un senso realistico della debolezza, da un senso spirituale di essa”.
- L’Europa vista dai giovani - 2 Dicembre 2020
- Le armi nucleari diventano illegali - 26 Ottobre 2020
- La poesia del cuore pensante - 24 Settembre 2020