FATTI

Reato di clandestinità. Un’occasione persa

Giustamente il Guardasigilli Andrea Orlando, con la sua Relazione sull’amministrazione della Giustizia al Parlamento, atto che solitamente precede le inaugurazioni dell’Anno giudiziario, ha rivendicato terminata la fase di «scontro», che negli ultimi anni ha avuto come terreno proprio la giustizia italiana. Ha in particolar modo sottolineato il «costante calo» dell’arretrato, soprattutto civile, e i passi avanti contro l’emergenza del sovraffollamento carcerario.

Tuttavia, nel mondo della politica e in quello degli operatori della giustizia e sociali, non si sono ancora spenti gli echi della polemica legati alla mancata cancellazione del reato di clandestinità. Fu approvato nel 2009 dal governo Berlusconi (e voluto in particolar dall’allora ministro dell’interno Maroni) all’interno di un clima culturale in cui si voleva mostrare i muscoli contro gli immigrati. Com’è noto, esso punisce chi entra o soggiorna illegalmente in Italia da un paese non UE. È la violazione di una norma amministrativa di competenza dei giudici di pace. La sanzione è un’ammenda da 5 a 10 mila euro, quindi una sola pena pecuniaria che non prevede forme limitative della libertà personale, come l’arresto o il fermo di polizia. Lo straniero viene denunciato a “piede libero” e in attesa del processo, può spostarsi dove vuole. A ciò si aggiunge che proprio perché privo di permesso di soggiorno, la persona irregolare non può avere un conto corrente, né può essere assunta regolarmente, o intestarsi beni mobili o immobili. In altri termini, integrarsi e avere una vita tranquilla. Del resto, come hanno denunciato più volte associazioni di volontariato, quale immigrato pronto ad attraversare il Mediterraneo a bordo di un barcone o i Balcani nel cassone di un tir è persuaso a cambiare idea per timore di vedersi infliggere una multa (che peraltro non pagherà mai)?


In tanti hanno denunciato l’inefficacia della norma, non solo le associazioni in difesa dei diritti civili e la magistratura. «Così com’è intasa le procure», ha detto il capo della polizia Alessandro Pansa. In una recente intervista rilasciata a Famiglia Cristiana, l’avvocato Guido Savio, dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, ha ricordato cosa ha determinato l’introduzione di questo reato: «L’apertura di un numero enorme di procedimenti inutili, specialmente nelle procure e giudici di pace vicini alle frontiere. Applicarlo alla lettera vorrebbe dire processare gli oltre 170 mila sbarcati nel 2014 e i 150 mila dell’anno scorso: nell’ottobre 2013 sono stati iscritti nel registro degli indagati anche i sopravvissuti alla tragedia di Lampedusa che ha commosso il mondo. Stante l’inefficacia, nelle grandi città (Roma, Milano, Torino) le pratiche vengono di fatto tenute nei cassetti, mentre in alcuni centri di provincia, meno oberati (ad esempio Cuneo), i processi vengono celebrati. Si produce carta ed è anche un modo per fare numeri nelle statistiche, dimostrando una presunta efficacia dei funzionari pubblici. Intanto però la macchina della giustizia si ingolfa, rallentando processi ben più importanti. E poi i costi: dallo stipendio dei giudici a quello degli avvocati di ufficio, a cui si aggiungono le spese di notifica che quasi mai arrivano a destinazione perché non si sa dove mandarle; tutte le spese processuali sono anticipate dallo Stato, che non le recupera mai proprio perché i sanzionati non sono in grado di pagarle. Insomma, sono condanne ai mulini a vento, che causano però un elevato spreco di soldi pubblici».
Non è assolutamente vero che abolire il reato di clandestinità significherebbe permettere l’immigrazione irregolare. Gli ingressi illegali negli ultimi sei anni non sono affatto diminuiti, anzi. L’invenzione di questo reato ha di fatto indebolito la lotta ai trafficanti, come rilevato dalla Procura nazionale antimafia. Infatti, con questo reato è stato introdotto un ostacolo procedurale: il giudice che deve individuare lo scafista non può sentire lo straniero sbarcato in quanto testimone e persona informata dei fatti, ma come indagato, quindi in presenza di un avvocato e con la facoltà di non rispondere.


Nell’aprile 2014, il Parlamento, attraverso una legge delega per la depenalizzazione di una serie di reati, aveva incaricato il Governo di abrogare il reato di clandestinità entro diciotto mesi. Eppure malgrado Orlando si è detto «convinto» che debba essere abrogato, il governo ha invece deciso di rimandare sine die tale decisione, perché occorre prima preparare l’opinione pubblica. Un’occasione persa per orientare l’opinione pubblica e cambiare così la percezione dei cittadini su un tema assai delicato. Ci sono, comunque, buone ragioni per pensare che presto si ritornerà ad affrontare l’argomento perché come ha sostenuto Mario Marazziti: «la semplice esistenza del cosiddetto reato di clandestinità porta chi è irregolare in una posizione di carte scadute, o semplicemente in una posizione complicata, come quella di chi è sopravvissuto a un viaggio della morte e quindi ha la colpevolezza solo di essere rimasto in vita; ebbene queste persone sono spinte ai margini del vivere sociale, in una zona grigia che le assimila direttamente davvero alle persone in situazioni di illegalità e di malaffare. Quindi, regala ai possibili trafficanti o approfittatori una fascia debole di persone immigrate che, al contrario, sono anche utili all’Italia, sono persone, e non c’è nessuna ragione di penalizzarle e condannarle. Allora, questa abolizione toglie un elemento di odiosità, di irrazionalità, ma soprattutto aumenta la sicurezza degli italiani».


Antonio Salvati


Marco Peroni
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