FATTI

Il bianco e il nero. Storia di Leone Jacovacci

Dal prossimo 21 marzo – in occasione della celebrazione della giornata mondiale contro il razzismo – sarà possibile assistere nelle sale italiane alla proiezione di un originale documentario, proiettato in anteprima il 7 marzo all’Auditorium Parco della Musica di Roma, intitolato Il pugile del duce.
Il documentario, realizzato da Tony Saccucci, presenta una originale ricostruzione – sulla base dei documenti dell’Istituto Luce – della storia di Leone Jacovacci, raccontata qualche anno fa in un libro (quasi introvabile) di Mauro Valeri: Nero di Roma, dove – in 448 pagine e 50 fotogrammi – si ricostruisce la avventurosa e sfortunata vicenda di un uomo e di molti pregiudizi.
Tutto comincia alla fine dell’Ottocento, quando il futuro padre di Leone, Umberto Jacovacci, ingegnere, parte per il Congo con in tasca un contratto da agronomo. Sarà laggiù che incontrerà Zibu Mabeta, figlia di un prominente locale, dalla quale avrà due figli, Leone e Aristide.
L’uomo torna in Italia coi figli, ma senza la madre dei due, morta per la malattia del sonno; decide di farli crescere nel viterbese, con l’aiuto dei nonni paterni. Leone viene iscritto all’anagrafe nel 1902, venti anni prima dell’avvento del fascismo.
L’Italia di allora è ancora giolittiana e piena di ardore per le imprese coloniali: non crede ancora proprio nella discriminazione razzista, che il fascismo introdurrà “scientificamente” nel 1938 con gli esiti drammatici – che conosciamo – della persecuzione antiebtraica, ma non è certo accogliente della diversità portata da questo italiano dalla pelle un poco più scura.
Leone cresce disorientato e un po’ ribelle, tra l’alto Lazio e Trastevere; infine fugge, a 16 anni, imbarcandosi – forse a Napoli e sotto falsa identità – su una nave mercantile della marina inglese. Fa naufragio ma viene salvato da un’altra imbarcazione. Arriva a Londra dichiarando di essere un ragazzo indiano, di nome John Douglas Walker, nato nel 1900, e come tale (siamo nel 1918) si arruola nel 53° battaglione del Bedfordshire Regiment dell’esercito inglese.

Una sera Leone viene ingaggiato al volo per sostituire un nero americano: per 5 sterline avrebbe dovuto solo resistere per pochi round. Ma il giovane immigrato sa il fatto suo e mette a terra l’avversario. Leone abbandona Londra e si trasferisce in Francia, facendosi passare per afro-americano, finché – nel 1925 – arriva a combattere a Milano. Sarà alla fine dell’undicesimo round che qualcuno lo sente urlare al secondo (in perfetto dialetto romanesco): «Sbrigate, damme l’acqua».
Leone riemerge così per quello che era, un figlio – sfortunato – della “stirpe italica”, e grande campione.
Bosisio e Jacovacci, Roma, 1928
Il pugilato, in quegli anni, è uno degli sport di massa più amati e seguiti nel nostro paese, Leone – che fatica ad ottenere riconosciuta la sua identità nazionale – combatte però ugualmente – nel 1928 – per il titolo europeo dei pesi medi: ne era detentore il fascistissimo (e bianco) pugile Mario Bosisio.
L’incontro, che si svolge su un ring allestito all’interno dello stadio Nazionale di Roma, poi trasformato in Flaminio, avrebbe dovuto sancire la superiorità dell’atleta purosangue:  ma Jacovacci è più forte e diventa campione europeo.
Il filmato integrale dell’incontro è tagliato all’ultima ripresa, senza i fotogrammi (perduti?) di Jacovacci vincitore. E due giorni dopo il match, sulla prima pagina di un quotidiano, sarà scritto: “Non può essere un nero a rappresentare l’Italia all’estero”.

Il seguito sarà una storia di ostracismi e censure, sfortuna e ingiustiza: Jacovacci muore a 81 anni, nel 1983, dopo l’emigrazione in Francia, nel 1940, ed una vita passata al lavoro nella portineria di un condominio a Milano, coltivando – e conservando – i ricordi di una gloria vera osteggiata dal rozzo pregiudizio.

Ricordare questa vicenda, in un paese come il nostro, ancora renitente nella riforma delle norme sul riconoscimento della cittadinanza ai nuovi italiani, non può che aiutare a capire la forza – ottusa, malvagia ed attuale – del pregiudizio razzista. E – speriamo – a sconfiggerla.

Paolo Sassi

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