FATTI

Memorie di Roma

Roma, via della Panetteria: in memoriam di Romualdo Chiesa.

La città – intesa evidentemente come comunità e non solo come agglomerato urbano – vive da sempre della memoria della propria storia. Una memoria che comincia dalle strade, dai loro nomi, dai luoghi di abitazione, di incontro e di ritrovo.
In questo senso, mi ha sempre incuriosito la lettura delle lapidi cittadine, di quelle recenti come di quelle remote. Sono come segni di evidenziatore, che – a volte dopo molti anni da un fatto allora ritenuto importante – provano a trasmettere ai posteri un messaggio ritenuto degno di essere ricordato.
A volte sono emblema di un antico (mal)costume locale: come quelle che proibiscono “di fare immondizia” in questa o quella strada “sotto ammenda di scudi cinque”; altre sono celebrazioni di personaggi più o meno famosi, che nacquero o pernottarono in questa o quella casa. Sono un po’ come quelle “isole” di un arcipelago urbano di cui da tempo scrive Marco Lodoli, svelando ai suoi lettori angoli più o meno noti della Capitale.
Volevo spendere qualche parola però oggi, nel giorno memoriale della strage delle Fosse Ardeatine, sulle tante lapidi romane in ricordo di quei 335 uccisi. Le scopro più o meno casualmente – ora che il mio luogo di lavoro si colloca nel centro cittadino – e sempre con sorpresa, curiosità ed inquietudine.
Sono in genere scarsamente evidenti, collocate – come sono – ad un’altezza che richiede, per poterle vedere, di sollevare lo sguardo: metafora non secondaria di questo nostro tempo affollato di immagini ed evanescenza.
Si accompagnano quasi sempre – specie se a distanza dalla data memoriale dell’eccidio – ad una corona d’alloro ormai avvizzito e ad un nastro colorato, a ricordo di una rapida cerimonia ivi svolta dall’amministrazione civica. Riportano frasi di un sintetico curriculum esistenziale, interrotto quel giorno di marzo del 1944, nella cava ardeatina; e sono spesso accompagnate da una memoria struggente della vita stroncata da quell’ordine scellerato e disumano di cui ha scritto così bene Alessandro Portelli in un bel libro di qualche anno fa, poi ripreso ed affabulato da Ascanio Celestini in Radio clandestina.
Di queste lapidi ce ne sono anche fuori dalle mura, ma il maggior numero di esse sono nel vecchio centro, dove allora abitavano quanti in esse sono ricordati: un centro oggi invece sempre più vuoto di popolo ed ingombro di attrazioni per turisti, a testimonianza di un mutamento profondo della città-capitale “reale”, sempre più sospinta in periferia, per parafrasare un antico studio di Franco Ferrarotti.
Si accompagnano, da qualche anno, alle “pietre di inciampo“, che invece rammentano al camminatore le vittime della Shoah, che anche a Roma ha avuto le sue vittime innocenti.
Singolare che a Roma chi voglia conservare identità e memoria debba fare due cose così diverse: alzare un poco lo sguardo e guardare bene dove si mettono i piedi.

Paolo Sassi

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