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Globalizzazione, pandemia e migranti

Una foto di Luigi Ottani

Gli effetti negativi della Pandemia, dal punto di vista sanitario, economico e sociale, sono sotto gli occhi di tutti. C’è un aspetto però sul quale non ci si è soffermati con la dovuta attenzione, probabilmente per timore di prestare il fianco agli attacchi della propaganda sovranista e populista molto attiva anche in questi tempi difficili, ma che invece a lungo andare potrebbe rappresentare un ulteriore problema nell’era “post-covid19”. Mi riferisco al mondo della migrazione il quale, anch’esso, è stato colpito duramente in questo anno complicato.
La migrazione è uno degli effetti della globalizzazione. Un ‘economia che prevede flussi dinamici a livello planetario di merci, servizi e capitali, porta con sé anche importanti movimenti di persone. La Pandemia è stata, paradossalmente, sia una conseguenza, sia un attacco al cuore dell’economia globalizzata. Una conseguenza per come si è diffusa rapidamente e in maniera consistente in quasi tutti i paesi del mondo; un attacco perché le misure di contenimento hanno costretto i vari Stati a chiudersi nelle proprie frontiere, limitando al massimo gli spostamenti della gente.
Lo studioso Massimo Livi Bacci, in un interessante articolo afferma: “ci sono, nel mondo, alcune centinaia di milioni di persone che vivono in un paese diverso da quello di nascita e che almeno una volta, nella loro vita, hanno traversato un confine di stato per prendere dimora in un paese diverso dalla loro patria. Questa massa di persone (“stock migratorio”) vive per oltre la metà nei paesi sviluppati, è in rapida crescita ed è quasi raddoppiato tra il 1990 e il 2019, passando da 153 a 272 milioni. Nel 2020, e per la prima volta da quando le stime sono iniziate (1960), lo stock migratorio si troverà in diminuzione“.
Milioni di individui sono stati costretti a rientrare in patria, altrettanti non sono riusciti a partire, per non parlare poi di quelli, che sono rimasti disoccupati nei loro nuovi paesi di residenza a causa della chiusura dei luoghi di lavoro. E’ andato poi in crisi il lavoro stagionale, lasciando scoperti, nei nostri paesi, interi settori, alcuni strategici, come quelli dell’agricoltura, dell’allevamento, altri fondamentali, come quelli della cura alla persona.
Un serio problema è, inoltre, la consistente diminuzione delle rimesse economiche, da parte dei lavoratori all’estero. Secondo una stima della Banca Mondiale, il 2021 vedrà un calo di circa l’8% del loro volume complessivo. Per molti paesi poveri questo flusso di denaro da parte dei loro cittadini che vivono all’estero presso le loro famiglie rimaste in patria, oltre ad essere un’importante risorsa economica (bisogna tenere presente che negli ultimi anni i migranti mandavano nei loro paesi d’origine una quantità totale di denaro di almeno 4 volte superiore a quella che i programmi di cooperazione internazionale dei paesi ricchi destinano ai paesi poveri), ha degli effetti stabilizzanti su queste società. In parole povere, le rimesse dei migranti possono essere equiparate a dei veri e propri “ammortizzatori sociali” in contesti caratterizzati da economie fragili o da welfare poco sviluppati. Sono tanti gli esempi che si potrebbero fare, per ragioni di brevità ne accenno ad alcuni. Molti giovani asiatici, latinoamericani, africani ma anche est-europei, grazie ai soldi che il padre (o la madre) invia dall’estero dove lavora, hanno avuto la possibilità di studiare e progredire nella scala sociale. Molti anziani spesso con pensioni esigue, sempre grazie al denaro inviato dai loro figli emigrati, hanno potuto affrontare la loro vecchiaia in maniera più dignitosa, magari avendo anche più chance per curare la propria salute. La costruzione di nuove abitazioni, che i migranti hanno intrapreso nei loro paesi di origine – case dove poter tornare una volta finito il proprio periodo lavorativo all’estero – hanno portato una certa dinamicità nel settore edilizio.
Il Coronavirus sta facendo emergere tutte le contraddizioni del nostro mondo ricco. Una di queste riguarda proprio l’argomento di questo articolo: fino ad oggi l’emigrazione è stata vista come un fastidio (nel migliore dei casi da sopportare) da cui ha tratto nutrimento la propaganda di alcune forze politiche alla ricerca di consensi facili. Ma la crisi che stiamo vivendo sta mettendo in luce un’altra verità e cioè che noi abbiamo bisogno degli emigrati. Ne abbiamo un disperato bisogno. Perché siamo un paese vecchio (le previsioni degli esperti parlano di un ulteriore effetto depressivo della pandemia sul tasso di natalità) a cui servono forze giovani che restituiscano un po’ di dinamicità alla nostra economia.
Sempre Massimo Livi Bacci nell’articolo sopracitato afferma: “Per quanto riguarda il nostro paese, l’opinione pubblica si è resa conto che la Pandemia non è conseguenza dell’immigrazione, e che è assai importante avere gli stagionali nei campi, del personale di servizio nelle famiglie, dei muratori sulle impalcature, dei mungitori nelle stalle, e del personale medico e infermieristico negli ospedali”.
L’auspicio è che si faccia tesoro di questa consapevolezza e si traduca in coraggiose scelte politiche per il futuro.

Francesco Casarelli


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