FATTI

L’ora d’italiano

Da insegnante di italiano, ho trovato assai utile la lettura
del volume
L’ora d’italiano. Scuola e
materie umanistiche
(Laterza, Roma-Bari 2010) di Luca Serianni, storico
della lingua italiana e vicepresidente della Società Dante Alighieri che ha
dedicato, negli ultimi anni, diverse riflessioni all’insegnamento dell’italiano
e delle discipline umanistiche nelle scuole secondarie. Libro poco teorico e
con diverse indicazioni pragmatiche, ad uso degli insegnanti. L’autore
sottolinea due aspetti rilevanti dell’insegnamento dell’italiano nelle scuole
secondarie di primo e secondo grado. Il primo riguarda l’uso della lingua
relativamente all’argomentazione: saper scrivere e saper parlare come
condizione per l’espressione ordinata e comprensibile del pensiero. Ho trovato
assai convincente la considerazione dell’autore secondo la quale l’insegnamento
dell’italiano nelle scuole secondarie dovrebbe concentrarsi principalmente
sulle competenze argomentative e sulla ricchezza lessicale, riducendo lo spazio
al grammaticalismo dei manuali (a mio parere comunque utile). Serianni suggerisce
di non sprecare energie sulla classificazione delle forme grammaticali ma, ad
esempio, di svolgere in classe il commento ad un editoriale di un quotidiano
nazionale, al fine di meglio interiorizzare e comprendere le strutture
argomentative utilizzate dall’autore. La centralità riconosciuta alla
strutturazione dell’argomentazione nell’insegnamento dell’italiano, soprattutto
nelle scuole secondarie di primo grado, aiuta ad esercitare la pienezza dei
propri diritti: il cittadino del futuro deve sviluppare le competenze inerenti
all’espressione strutturata, chiara e comprensibile delle proprie idee. In
questo senso, risultano assai preziose le indicazioni didattiche: ai fini della
valutazione il riassunto e il commento sono molto più importanti del tema. Il
tema – seppur utile perché spesso sollecita quel parlar di sé, quell’egocentrismo
che, più immediato negli adolescenti, aiuta a conoscere i ragazzi – dovrebbe
lasciare spazio allo scritto tipicamente argomentativo,
“in cui sviluppare una tesi in base a riflessioni personali o
commentare opinioni altrui”.
Il riassunto aiuta a misurare la capacità di
capire un testo dato , “
di coglierne la
salienza informativa, di renderlo in forma linguisticamente efficace”
. A
differenza del tema che talvolta diventa una sorta di pagina di diario – di blog
bisognerebbe dire oggi –
“promossa a
prova scolastica”.
Si continua, tuttavia, a dare poco peso alla logica
argomentativa.




Occorre considerare che viviamo sempre più in un tempo in cui
il grande sviluppo tecnologico della nostra era ci ha dato accesso a una
quantità di informazioni, come mai era successo. Il risultato, però, non è
stato l’inizio di una nuova stagione di crescita del sapere, una specie di nuovo
illuminismo, ma – come ha ben spiegato Tom Nichols nell’interessante volume La conoscenza e i suoi nemici. L’era
dell’incompetenza e i rischi per la democrazia
– il sorgere di un’età
dell’incompetenza in cui una sorta di egualitarismo narcisistico e disinformato
sembra avere la meglio sul tradizionale sapere consolidato. Medici, professori,
professionisti e specialisti di ogni tipo non sono più visti come le figure a
cui affidarsi per un parere qualificato, ma come gli odiosi sostenitori di un
sapere elitario e fondamentalmente inutile. Che farsene di libri, titoli di
studio e anni di praticantato se esiste Wikipedia? Perché leggere saggi,
ricerche e giornali quando Facebook mette a nostra disposizione notizie
autentiche e di prima mano? L’“apertura” di Internet e la sua apparente libertà
sono solo i primi colpevoli. Oltre ai social network, alla democrazia dell’“uno vale uno” e ai semplicismi che la
rete favorisce, Nichols rileva anche l’emergere del modello della customer satisfaction nell’educazione
universitaria, la trasformazione dell’industria dei media in una macchina per l’intrattenimento
aperta 24 ore su 24 e la spettacolarizzazione della politica.
Il secondo aspetto riguarda invece il rapporto tra lingua e
letteratura, come parte di un mosaico più ampio, quello del rapporto tra lingua
e cultura. Com’è noto, per molto tempo nella scuola superiore si è identificato
l’italiano con la letteratura. Oggi si è affermata l’attenzione alla lingua non
letteraria. Per l’autore non esiste un conflitto tra lingua e letteratura e “d’altra parte la letteratura non si riduce alla
lingua in cui i testi sono scritti”.
Insegnare o parlare di letteratura
comporta notevoli responsabilità – avverte Serianni – per l’insegnante: “si tratta, nientemeno, di scommettere sulla
scoperta dell’universo letterario, del piacere di avventurarsi in mondi
distanti, per temi o per epoche, eppure in grado di coinvolgere, di commuovere,
di esaltare; di avviare al gusto della lettura disinteressata, fatta non perché
se ne debba render conto a qualcuno ma solo perché ci va di farlo; di
persuadere – ma con discrezione, direi quasi con pudore, senza moralismi – che
la lettura affina le capacità di riflessione e naturalmente è la palestra più
indicata per esprimersi meglio, a tutti i livelli, includendo anche una più
nitida e articolata organizzazione delle idee. Non è un’impresa facile, lo
sappiamo”.
Bisogna fronteggiare “la
fisiologica concorrenza di altre attività di forte potere attrattivo per un
adolescente, a partire dalla socializzazione amicale e sentimentale; è
necessario anche, su un piano più strettamente didattico, che l’alunno arrivato
alla scuola media sia in grado di leggere speditamente un testo scritto … Ma
non basta confidare nel fascino dei capolavori o anche semplicemente
nell’attrattiva di una trama letteraria ben strutturata. Leggere
consapevolmente un testo letterario significa, specie nel quinquennio delle
superiori, entrare nell’officina dello scrittore: smontare i meccanismi
narrativi del romanzo, riconoscere gli elementi costitutivi dell’apparato
retorico, persino cogliere il divenire di un testo, soffermandosi su alcuni
casi esemplari di varianti testuali (col soccorso, indispensabile, di diapositive
digitali o di altri sistemi multimediali). L’importante è non esagerare”.




Al di là di queste preziose indicazioni, resta vero il fatto che
un buon insegnante non si costruisce a tavolino. Giustamente osserva Serianni: “più importanti delle indicazioni
ministeriali, dei corsi di aggiornamento, dei libri di testo sono la solida
formazione ricevuta negli studi universitari e – soprattutto – un requisito
strettamente soggettivo, anzi psicologico: la fiducia nella possibilità
d’incidere sulla massa di adolescenti inerti o distratti, valorizzando i
talenti dei singoli individui e assicurando loro la necessaria preparazione
disciplinare. Ciò vuol dire che l’insegnante deve, più di quel che valga per
altre professioni, credere al lavoro che fa e scommettere su sé stesso,
proponendosi agli allievi come un esempio positivo, non usurato dalla routine e
non rassegnato alle tante cose che non vanno. Come tutte le scommesse, si può
vincere o perdere; ma se si vince, ogni docente – dalle elementari in avanti –
resterà un riferimento nitido e costante per l’allievo, anche quando il ragazzo
sarà diventato adulto, e la sua lezione non andrà dispersa”
.

Antonio Salvati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *