Le religioni sono veramente un fattore scatenante o di amplificazione dei conflitti? Certamente l’espansione territoriale e mediatica dell’ISIS ha contribuito a radicare nell’immaginario collettivo la combinazione / coniugazione tra religione e violenza.
Il tema del ruolo giocato dalle religioni in contesti sociali contraddistinti dalla violenza riaffiora ciclicamente nei diversi periodi storici. Del resto – avvisa Andrea Riccardi – “la violenza è antica come il mondo. L’assassinio di Abele per mano di Caino è quasi un archetipo di quel male che accompagna la violenza umana. La violenza – colpire un essere umano o metterlo a morte – è un atto che esalta quasi religiosamente il violento; anche se, d’altra parte, è un atto ateismo, perché colpisce l’uomo creato a immagine di Dio”. Per Riccardi anche la violenza ha una storia, che varia nei secoli, e nessuna religione nel corso dei secoli ne è stata immune.
Considerando gli ultimi decenni, per Roberto Toscano il tema della religione connessa alla violenza va inserito nell’ambito del vasto processo della globalizzazione: “il paradosso che dobbiamo affrontare deriva dal fatto che il processo di mondializzazione, reso possibile dalla rivoluzione nelle comunicazioni e nell’integrazioni dei mercati mondiali, anziché unire l’umanità ha introdotto nuovi elementi di divisione e, nello stesso tempo, nuove pulsioni che spesso si traducono in violenza”.
Pertanto, l’esasperazione di un’identità vissuta come una sorta di rifugio in un mondo pensato come ostile rischia di divenire esclusiva e antagonistica. E una di queste identità è quella religiosa, spesso associata a contrapposizioni violente. E’ evidente – avverte Toscano – che occorre distinguere nettamente la religione intesa come uno dei possibili fondamenti dell’identità, dalla religione come teologia, etica, escatologia. Ed è evidentemente improprio “attribuire oggi alla religione, intesa nella sua essenza primaria, la responsabilità della violenza”.
La violenza deriva sempre, quindi, da qualsiasi identità (nazionale, familiare, tribale, politica, anche religiosa) che arriva alla negazione dell’altro.
Queste ed altre considerazioni sono raccolte nell’interessante volume Religioni e violenza, a cura di Vittorio Ianari, che raccoglie gli interventi di un Convegno sul tema del rapporto che intercorre tra le varie religioni e la violenza, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio nel 2014.
Convegno organizzato dalla consapevolezza che “per raggiungere l’obiettivo della pace nel mondo post ideologico e globalizzato in cui viviamo – come ha detto Marco Impagliazzo – la diplomazia tradizione ha bisogno di nuovi strumenti che coinvolgano tutte le dimensioni della vita: la religione in primo luogo, poi la politica, la cultura, la lotta al sottosviluppo. L’intera società civile deve essere impegnata in uno sforzo di superamento di antiche diffidenze quando non di veri e propri conflitti che sono all’origine delle esplosioni di violenza e di terrorismo che hanno insanguinato il mondo all’inizio del terzo millennio”.
Alcuni autori come Tarek Mitri – ex rappresentante dell’ONU per la Libia ed ex ministro libanese – si sono soffermati appunto sulla violenza e sul terrorismo d’ispirazione religiosa che proprio dalla religione trae “le giustificazioni morali per uccidere e propone immagini di una guerra cosmica che permette agli attivisti di credere nella legittimità della battaglia intrapresa. Questo non significa né che la religione sia causa di violenza, né che la violenza non possa essere giustificata con altri mezzi, ma certamente vuol dire che la religione fornisce quei simboli che rendono possibile lo spargimento di sangue. Alcuni parlano di un’oscura alleanza che occasionalmente si stringe tra la religione e la violenza”.
Per questo – in un mondo globalizzato, con la potenza mediatica accompagnata da deliri di onnipotenza dei gruppi di fanatici – è necessario porre in maniera corretta il rapporto tra la religione e la violenza. Ricorda Andrea Riccardi che “l’uso della guerra per risolvere i conflitti o cambiare le istituzioni, la familiarità con la violenza, hanno creato una certa abitudine all’uso della forza che si radica nella cultura odierna. E’ una condizione pericolosa, in cui i religiosi e le religioni debbono assumersi la loro responsabilità”. Giustamente Riccardi ha ricordato che il 1989 ha rappresentato il capovolgimento dell’idea che il cambiamento, anche quello radicale, debba passare attraverso la rivoluzione violenta. Infatti, pochi ricordano che, ad eccezione della Romania, la fine del mondo comunista europeo, che a tanti pareva incrollabile, avvenne attraverso una forte pressione non violenta, sia pur accompagnata da una favorevole congiuntura internazionale. E non a caso il cambiamento del 1989 arrivò dopo la convocazione di Giovanni Paolo II nel 1986 ad Assisi per la celebrazione della preghiera per la pace con i leaders di diverse religioni mondiali: “non più le une contro le altre, ma le une accanto alle altre, anzi le une che pregano accanto alle altre”.
Per questo assume una rilevanza particolare il recente incontro tenutosi a Firenze, Dialoghi di civiltà tra Oriente e Occidente, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio che ha visto la partecipazione straordinaria del Gran Imam di Al Azhar, Ahmed Al Tayyeb, che rappresenta la prima sede universitaria del mondo islamico, la cui autorevolezza va ben al di là dell’Egitto. Significativamente Riccardi all’apertura ha affermato che “Oriente e Occidente sono differenti nella loro storia, antica e recente, nel loro rapporto con la religione, nelle loro vicende politiche, nella cultura e antropologia. Ma le differenze non cancellano il tanto che unisce: la geografia, la prossimità mediterranea, gli scambi storici, le radici, le responsabilità verso il futuro. Siamo destinati a parlarci intensamente e presto: condannati – uso questa parola – a parlarci dalla geografia e dalla vicinanza, dalle sfide violente e aggressive, dalla lotta all’ignoranza, dalla necessità di costruire un mondo migliore”.
Anche se il nostro mondo è segnato dalla paura, dalla crisi e dalla rassegnazione, è fondamentale promuovere ed aumentare opportunità di incontri che aiutano concretamente a conoscersi, a superare le paure reciproche e a superare una rassegnazione che in realtà crea solo deserti. Il modo pratico – ha detto Impagliazzo – è venirsi incontro nei momenti di difficoltà: “oggi, noi occidentali dobbiamo soccorrere in un certo senso, essere solidali con un mondo musulmano che sta soffrendo le gravi crisi di una guerra, di una violenza terroristica che è nata dal suo stesso interno, dalla sua stessa gente e che ormai ne sta subendo profondissime conseguenze. Il primo modo è quello di non condannarci reciprocamente, di non ignorarci, ma quello di conoscerci a fondo e per far questo incontrarci perché la lontananza è frutto di ignoranza. Oggi, noi scegliamo la via dell’incontro”.
Antonio Salvati
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