FATTI

Elena Ferrante: chi sarà mai costei?

Scrivendo sotto pseudonimo nel 1966, Primo Levi pubblicava – col nome di Damiano Malabaila – un libro inconsueto dal titolo Storie naturali. In quel volume era presente un curioso raccontoIl Versificatore, in cui si immaginava l’esistenza di una macchina capace di scrivere – in particolare di comporre versi – da sé, a seconda del bisogno, in stili e su temi scelti di volta in volta.

I libri di Elena Ferrante, in inglese. 

Quel racconto mi è tornato alla mente in questi giorni, leggendo delle ipotesi che si stanno sviluppando attorno all’identità dell’autrice (o all’autore) che si cela sotto il nome di Elena Ferrante: la quale – è stato detto, anzi scritto – non è “un’autrice virtuale”.
Una studiosa, Carmela Ciuraru, ha dedicato un libro pochi anni fa all’uso degli pseudonimi nella letteratura: Nom de plume. A (Secret) History of Pseudonyms. Si tratterebbe perlopiù, secondo questa autrice, d’una pratica d’altri tempi. Che però sembrerebbe aver trovato – almeno in questi ultimi anni – una certa resipiscenza. 
Fu il caso, qualche anno fa, dell’epica narrazione della riforma luterana intitolata Q e pubblicata sotto il nome (allusivo?) di Luther Blisset. Da quell’esperienza avrebbe visto la luce il collettivo anonimo di scrittura (oramai disvelato) che ha poi assunto il nome di Wu Ming (che in cinese vorrebbe dire “senza nome”), autore di numerose opere sia collettive che individuali.
Il “caso” Ferrante, invece, sta assumendo in quest’ultimo periodo contorni sempre più eclatanti: sia perché in effetti il “mistero” dura da oltre vent’anni, sia perché – per il successo raggiunto presso il pubblico americano – la questione ha ormai travalicando i confini nazionali.

Carmela Ciuraru, Nom de plume, 2011.

La settimana scorsa è accaduto l’ultimo episodio della querelle: Roberto Saviano (dalle pagine de la Repubblica) e Serena Dandini candidano la Ferrante a competere per il premio Strega. L’autrice risponde sulle colonne del medesimo quotidiano, ma poi – nei giorni successivi – compaiono altri suoi più meno probabili interventi: una intervista (immaginaria) su Il Secolo XIX e una lettera (falsa) su Il Mattino. Risponde via twitter l’editore e/o, che precisa: “l’unica Ferrante vera è quella di Repubblica”.
Difficile dire quale esito avrà una vicenda che sta assumendo sempre più i toni della commedia. Certo, appare singolare un così prolungato nascondimento, in un tempo nel quale forse è richiesto troppo di mostrarsi, ma in cui questo anonimato parrebbe aver tirato troppo la corda.Ha scritto Paolo Di Paolo:

La «morte dell’autore» di cui tanto aridamente si discuteva in quel ’68 caro alla Ferrante […] è diventata questo nome e cognome così allusivi da sembrare finti. […] Qualcuno obietterà che il gioco degli pseudonimi in letteratura è lecito. Sì, ma è raro che stia in piedi per più di vent’anni. E comunque, in quanto gioco, è infinitamente meno interessante di una vita, di una faccia, di un’esperienza reale. Si può restare appartati senza diventare fantasmi. Così la letteratura somiglia a un software che produce storie, o al canovaccio di una impeccabile ma algida serie tv. Così, la letteratura italiana – in America e non solo là – rischia di restare senza volto.

Paolo Sassi

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