FATTI

Tibhirine, Algeria, 20 anni dopo.

Sono passati 20 anni dal rapimento (avvenuto nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996) dei sette monaci trappisti del monastero, arroccato sulle montagne, Notre-Dame de l’Atlas di Tibhirine, in Algeria.
I monaci poi furono uccisi il successivo 21 maggio e i particolari della loro morte ancora oggi non sono stati del tutto chiariti.
Fare oggi memoria del loro martirio appare particolarmente significativo nella fase storica che stiamo vivendo, in questo periodo sempre  più caratterizzato dall’odio globalizzato dei fondamentalismi.
Dopo i terribili fatti di Bruxelles del 22 marzo scorso, è di poche ora fa la notizia di un attentato in un parco di Lahore in Pakistan, in cui hanno perso la vita  72 persone (oltre 300 feriti), in gran parte donne e bambini cristiani che stavano festeggiando la Pasqua.
Una catena di violenza e morte che sembra non avere fine.
In un tempo in cui sono tanti ad affermare che la violenza ha oramai preso il sopravvento, la storia dei sette monaci francesi (mirabilmente descritta dal bellissimo film di Xavier Beauvois «Uomini di Dio», 2010)  rappresenta un punto di riferimento per chi non vuole cedere alla paura e crede ancora che la ricerca di vie di pace e dialogo siano la vera risposta alle logiche della guerra.
I sette di Tibhirine, pur sapendo di mettere a rischio la loro vita, vollero restare in Algeria. Il paese, negli anni ’90, era dilaniato  dalla guerra civile che vedeva contrapposte le forze governative (insediatesi a seguito di un colpo di stato nel 1992) e le fazioni islamiche confluite nel GIA (Gruppo Islamico Armato), dopo lo scioglimento forzato del fondamentalista  FIS (Fronte Islamico di Salvezza), trionfatore al primo turno delle elezioni del 1991.
La loro fu una scelta di fedeltà all’Algeria, un paese che amavano e, per il quale, avevano votato la loro vita. Una scelta di amore per la povera gente che viveva nel villaggio di montagna nei pressi del monastero. Una scelta che oggi potrebbe apparire folle alle menti “ragionevoli” di chi vorrebbe una nuova “crociata” contro la minaccia islamista e urla contro le presunte invasioni barbariche rappresentate dai rifugiati che si affollano ai confini, sempre più blindati, dell’Europa.
Leggendo invece le parole di frère Christian de Chergé,  priore del monastero, nel suo testamento spirituale qui riportato, si comprende il valore del voler percorrere fino in fondo la missione per la quale si è stati chiamati: quella di testimoniare la forza dell’amore, l’arma più efficace per stroncare in profondità le radici della violenza e della guerra, il vero argine al male dilagante.
Quello che scriveva frère Christian, di fronte alle minacce che sentiva sempre più vicine, è una reazione cristiana all’odio violento di chi semina morte e divisione, ma anche un no deciso a chi si affanna ad invocare quello che Samuel Huntington ha definito “the clash of civilizations” (“lo scontro di civiltà”).
Rileggere oggi queste parole restituisce un po’ di speranza per affrontare con più coraggio i tempi non proprio luminosi che stiamo vivendo.

Quando si profila un ad-Dio
Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima
del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che
vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la
mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e
a questo paese.

Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe
essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me : come
potrei essere trovato degno di tale offerta ? Che sapessero associare questa
morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche
meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza
per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo,
e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che
mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli
in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi
mi avesse colpito.

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo.
Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che
amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno
la “grazia del martirio”, il doverla a un algerino chiunque egli sia, soprattutto
se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli
algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo
islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza
identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L’Algeria e l’islam, per me, sono un’altra cosa; sono un corpo e
un’anima. L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente
ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo
imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa, proprio
in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli
che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: “Dica adesso
quel che ne pensa!”. Ma costoro devono sapere che sarà finalmente
liberata la mia più lancinante curiosità.

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in
quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come
lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della
sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà
sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando
con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, et totalmente loro, io rendo
grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia,
attraverso e nonostante tutto.

In questo grazie, in cui tutto è detto, ormai, della
mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici
di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli,
e ai loro, centuplo accordato come promesso!

E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che
facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio
profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in
paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!

Insc’Allah

 
Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994
Christian

nella foto: Una scena del film di Xavier Beauvois: “Des hommes et des dieux”  (“Uomini di Dio”), 2010.

Francesco Casarelli

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