FATTI

Per una scuola non medicalizzata. A proposito di DSA, BES, etc. …

Mi accosto oggi a un tema delicato, quello della medicalizzazione progressiva – altri direbbero della psicologizzazione – delle difficoltà di apprendimento a scuola. 
In Italia è in vigore dal 2010 la legge 170, con la quale si sono riconosciute la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia, quali appunto disturbi specifici (DSA). I DSA sono diagnosticati pur in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e deficit sensoriali, qualora il medico certificante ritenga ci si trovi in presenza di limitazioni importanti per attività legate all’apprendimento. 

Con gli alunni che soffrono di DSA (nonché con gli alunni con bisogni educativi speciali, BES) l’istituzione scolastica è tenuta ad adottare una “didattica individualizzata e personalizzata, con forme efficaci e flessibili di lavoro scolastico che tengano conto anche delle caratteristiche peculiari dei soggetti”. Una legge di tutela, dunque? 
In realtà, però, alcuni studiosi stanno mettendo in evidenza alcuni fenomeni distorsivi che la normativa alimenta.
Raffaele Iosa, già direttore didattico e ispettore scolastico, ha scritto: “Uno spettro s’aggira per le scuole d’Italia”, quello della “iatrogenesi” (la malattia come prodotto dei medici stessi). Secondo lo studioso la scuola sta finendo vittima di una tendenza alla classificazione in chiave “clinica” di ogni difficoltà dell’apprendimento, un processo che finirebbe per minare il concetto stesso di pedagogia come arte capace di far andare oltre i propri limiti.
Scrive Iosa che “per ogni sintomo c’è una medicina, una terapia, un santone”, che “siamo dominati dall’ideologia della salute omologata ad un’astratta vita senza mai dolori e fatiche”. “Oggi”, prosegue, “la rincorsa alla ‘certificazione’ davanti a qualche presunto mal funzionamento di apprendimenti/comportamenti sembra una specie di ‘difesa’ dei genitori davanti ad una scuola competitiva. Ma diventa anche una scusante per gli insegnanti (‘Ah, allora non è per volontà che non capisce, ma per biologia! Quindi: io non ho colpe didattiche’). La Grande Malattia semplifica molte cose, tutte brutte. Per esempio riduce la responsabilità degli adulti, abbassa la fiducia verso i ragazzi (se non ce la fanno non è colpa loro), deresponsabilizza la relazione adulto-bambino. Prefigura anche nuovi cronicari scolastici di finta integrazione, con una nuova subdola fenomenologia che ho chiamato ‘isolazione’, cioè stare a scuola con gli altri per finta, perché il ‘sintomo’ diventa barriera, specialismo, calo della fiducia evolutiva. Si riduce anche il valore della resilienza, cioè la sana e normale risposta alle sfortune della vita di cui spesso i ragazzi abbondano, e che i sacerdoti della grande malattia negano”. 
Fin qui Iosa. In un’analisi che a me, che vedo queste cose tutti i giorni a scuola, che combatto ogni giorno con la fuga dalla responsabilità da parte dei ragazzi e forse potrei/dovrei contrastare di più la tentazione della rassegnazione da parte di qualche collega, sembra del tutto evidente. 
Meglio una tecnica anestetizzante che una pedagogia vera! Meglio una metodologia da pensiero unico che lo sforzo di dar vita a una didattica efficace! Questo, paradossalmente, è il risultato prodotto dalle medicalizzazione progressiva che sta travolgendo il mondo scolastico.
Ma chi non è interno al mondo della scuola, ovvero chi ha assorbito quella koiné psicologizzante che ormai è entrata a far parte del bagaglio quotidiano tutto questo potrebbe sembrare eccessivo. “Ma dai!”, mi si potrebbe dire: “Se qualcuno ha certificato dei disturbi, quei disturbi ci saranno!” (magari quelli che lo dicono sono gli stessi che storcono il naso davanti ai vaccini; della serie “Si è favore della scienza solo quando la pensa come me”). 
Il problema, però, è che quei disturbi sembrano crescere man mano che la scuola li affronta nella sua nuova veste medicalizzata-psicologizzata. I casi di DSA sono in forte aumento nelle scuole di ogni ordine e grado, tanto che in molte classi si contano 4, 5, 6 alunni DSA. E allora?
“Ciò che è ‘particolare’ a scuola rischia di finire nei corridoi delle ASL”. Questa l’accusa di Vincenza Palmieri, Presidente dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare. Spiega la dr.ssa Palmieri: “A proposito del numero di diagnosi di DSA, le ultime informazioni realistiche che siamo riusciti ad ottenere sono relative al biennio 2011-12. Non tutte le regioni hanno raccolto o reso pubblici gli atti e viene spontaneo domandarsi il perché. C’è, per portare un esempio, il caso di Pisa: nel solo 2013 alla ASL 5 di Pisa sono giunte 530 richieste di valutazione per DSA. Ma cosa succede a Pisa, i bambini sono diventati improvvisamente tutti dislessici? E’ scoppiata una pandemia? E’ forse lecito pensare che ciò che dovrebbe essere una condizione esclusivamente afferente alla didattica, alla relazione scuola-famiglia, ai piani formativi per i futuri insegnanti, divenga invece una questione di ordine sanitario? E Pisa non è un caso isolato”.
Sì, è vero, i bambini dislessici esistono, esistono le difficoltà di apprendimento. Ma esiste anche il sistema formativo. Esistiamo noi insegnanti, che nella nostra professionalità e con la nostra fantasia siamo chiamati ad affrontare il problema e non a metterlo sotto il tappeto di una diagnosi. Esiste l’art. 3 della Costituzione, col suo dettato: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli […] che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Non possiamo accettare che una difficoltà diventi una condanna. Non possiamo procedere per “dispense” sempre più frequenti: “Il metodo dispensativo è il più grosso danno che possiamo fare ai ragazzi. Perché, di fatto, stiamo impedendo loro il diritto all’apprendimento, che è un diritto inalienabile dell’essere umano, limando pezzi che non si recupereranno forse mai più” (Palmieri). Non possiamo abdicare alla grandezza e alla bellezza del nostro lavoro. 
Se è vero, come ha detto Malala che “un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo”, bene, si tratta di crederci. Credere che possiamo cambiare il mondo con le sue difficoltà; il mondo di ogni bambino, ragazzo, giovane, con le sue difficoltà.

Francesco De Palma
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