#Pathsofpeace: parole profetiche e sensate, “per non farsi guidare dalla paura e dalla fretta”
Ci si può quasi tuffare tra i testi delle decine di interventi che si susseguono alle tavole rotonde del convegno “Strade di Pace”, che si sta celebrando in Germania, a Münster, in Germania, tra uomini e donne di fedi diversi, leader religiosi e non, ma anche con rappresentanti dei mondi della politica, dell’economia, della cultura, siano essi o no credenti; ovvero tra i mille e mille tweet segnati dall’hashtag #PathsofPeace.
Facendolo si coglie uno spaccato del nostro mondo. Uno spaccato diverso rispetto a quello cui siamo abituati. Si sperimenta una ricchezza di idee e best practice che forse meriterebbero ben più di tanti opinionisti ed episodi di cronaca le prime pagine dei giornali. Per il lettore medio, ma anche per chi detiene una qualche responsabilità, piccola o grande, nella società, sarebbe meglio formarsi su questo distillato del pensiero e dell’azione globali, su questo ragionare insieme visionario e meditato, brillante e articolato, piuttosto che sulla comunicazione sopra le righe che va tanto di moda, sugli applausi o sui cori da stadio con cui si commentano i fatti del giorno, sul meccanismo dei “like” che ha contagiato tutti e che sembra esentarci dallo sforzo dell’argomentazione.
E’ bello, invece, leggere cose tanto umane quanto razionali, tanto profetiche quanto sensate.
Facciamolo a caso, in breve.
Scopriremmo le piccole perle di gente meno famosa degli articolisti nostrani, eppure più capace di aprire prospettive inedite, meno figlie delle emozioni del momento. Ecco allora Mustafa Cerić, già Gran Muftì di Bosnia ed Erzegovina: “Il mio Dio è amabile e compassionevole; non odia e non è un violento”. Ecco p. Alejandro Solalinde, sacerdote messicano, difensore dei diritti umani dei migranti: “Non ci sono muri che possano fermare il fenomeno migrazione”. Ecco Eugenio Bernardini, moderatore della Tavola valdese: “Lutero disse ‘Anche sapessi che domani il mondo finirà, pianterei lo stesso un melo nel mio giardino’; come cristiani abbiamo cercato anche noi di piantare un piccolo melo, quello dei ‘corridoi umanitari’”. Ecco Mauro Garofalo, responsabile dell’Ufficio Pace della Comunità di Sant’Egidio: “Di fronte a una guerra mondiale a pezzi costruiamo almeno una pace a pezzi”. Ecco Ursula Kalb, membro del Comitato cattolico di Baviera: “Un muro lo si costruisce in una notte, come quello di Berlino, ma poi ci vogliono trent’anni per buttarlo giù”.
E’ ancora più bello leggere analisi che davvero non sarebbe male orientassero il nostro dibattito. Come quella sulla guerra, offertaci da mons. Dieudonné Nzapalainga, cardinale arcivescovo di Bangui (Rep. Centrafricana): “Nel mio sfortunato paese ogni gruppo che si rivoltava diceva di farlo per rispondere alla miseria del popolo, alle ingiustizie, alla cattiva gestione delle risorse naturali. Ognuno prometteva il paradiso all’indomani del suo arrivo al potere. Ma c’è sempre una terribile sproporzione tra il fine e i mezzi violenti che si utilizzano: ogni guerra sacrifica le vite che pretende di salvare. Fondare la speranza sulla guerra è sempre un’illusione. Nessuno esce vincitore da una guerra. È sempre un fuoco che brucia e consuma l’umanità, sia quella dell’oppressore che quella della vittima, e le cui braci restano ardenti a lungo”.
Ovvero come quella sui giovani radicalizzati, operata da Frédéric Van Leeuw, procuratore federale belga: “Quando si vive una crisi culturale e identitaria, basta che appaia un ‘profeta’ che mostra la retta via, un ‘salvatore’ da quattro soldi. E’ quanto accaduto con l’imam errante di Ripoll e gli 11 giovani che lo hanno tragicamente seguito nel nulla della violenza a Barcellona e dintorni. Eppure un anno prima quegli stessi ragazzi avevano manifestato contro il terrorismo. Ma chi educa questi giovani? Chi li ascolta e incanala la loro radicalità dando loro fiducia? Nelle nostre società la risposta più frequente è l’esclusione. C’è l’esclusione provata in una periferia urbana emarginata. C’è quella subita nel mondo della scuola o del lavoro. Ora, dobbiamo essere consapevoli che l’esclusione è proprio la tappa principale nel percorso della radicalizzazione, essa plasma l’individuo, lo radica nelle sue frustrazioni. Di fronte [al terrorismo] la tentazione potrebbe essere quella di rispondere con il ‘non-diritto’, trattare questi ‘pirati’ dei tempi moderni come è stato fatto a Guantanamo. E’ proprio a una tentazione simile che abbiamo resistito fino ad oggi. Non parliamo di guerra, ma di giustizia, di sicurezza. Non parliamo di eliminare, ma di arrestare, di giudicare. E’ dunque importante che ci prendiamo del tempo per riflettere, come facciamo in queste magnifiche giornate sulle strade della pace, che ci aiutano a non lasciarci guidare dalla paura o dalla fretta”.
Francesco De Palma
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