FATTI

“Ho bevuto il latte della nostalgia, ho mangiato il pane della distanza”. Il film: “My name is Adil”. Quando l’immagine diventa poesia.


“Non ero mai stato in una città, non avevo mai visto tante persone tutte insieme, ma nessuno mi guardava”.
Il film: “My name is Adil” è l’opera prima di Adil Azzab, un giovane marocchino di 27 anni che svolge la professione di educatore. Nelle vesti di regista ha messo in scena la storia della sua vita di giovane migrante e la lunga strada verso l’Italia che ha dovuto percorrere da adolescente, da una sperduta e arida campagna delle provincia marocchina.
Nella storia di Adil c’è tutto il dramma dell’emigrazione. L’infanzia dura e povera al suo paese di origine dove lavorava fin da piccolo con le pecore, il suo rapporto difficile con uno zio dispotico (che ricorda tantissimo il “padre padrone” di Gavino Ledda), la mancanza del papà da tempo emigrato in Italia, la madre preoccupata per il suo futuro, il suo rapporto “speciale” con il vecchio nonno – un anziano capace di pronunciare parole che vanno dritte al cuore (“Quando ero giovane mi mandarono a costruire una strada sotto il sole cocente. Ci sfruttavano e ci facevano soffrire perchè non ci davano da bere. Venne un uomo vestito di bianco a difenderci e far valere i nostri diritti. Seppi che sia chiamava Adil. Quando scelsi il tuo nome desiderai chiamarti come lui. Adil significa uomo giusto per questo scelsi per te questo nome. Porta alto l’onore del tuo paese là dove andrai.”) – la partenza per l’Italia, il distacco, la fatica dell’integrazione nella nuova società.
In tutto ciò il film potrebbe apparire simile a tanti altri lavori cinematografici riguardanti il tema dei migranti. 
Ciò che rende unica quest’opera prima è la sua intensa carica poetica.
La bravura del regista è quella, infatti, di soffermarsi sui dettagli e lasciar parlare le immagini trasformandole in arte pura.
Solo per fare un esempio, è stupenda la sequenza della madre di Adil, oramai adolescente, che lava i piedi del ragazzo al momento della sua partenza per l’Italia. E’ una scena triste, Adil sta per emigrare e non sa quando tornerà. Potrebbe essere un’avventura senza ritorno. La telecamera si sofferma per lunghi istanti, tramite un bellissimo primo piano, sui piedi sudici del ragazzo e sulle mani della madre che li lava con grande cura e  delicatezza. E’ un momento dolcissimo, un gesto d’amore gratuito, estremo, definitivo, di una grande potenza emotiva. In quell’atto materno di congedo, c’è tutta la carica simbolica di quel che significa l’emigrazione in termini di “strappo” da un presente che, seppur pieno di problemi e difficoltà, almeno lo si conosce, per dirigersi verso un futuro incerto e pieno di insidie. Non si può fare a meno di vedere, in quel che fa la madre di Adil, un’altra ben più famosa “lavanda dei piedi” della storia, descritta in tante immagini dell’arte sacra. 
Tutto il film è un susseguirsi di sequenze come quella appena descritta (come la lunga e dettagliata scena di Adil dal barbiere: la nuova acconciatura alla moda è una specie di “rito di iniziazione”, un “taglio con il passato”, che segna il suo passaggio alla nuova vita italiana).
Vanno segnalate anche le musiche del film perchè sono bellissime e contribuiscono a rendere la pellicola un piccolo capolavoro.
L’aver trasformato in poesia i suoi ricordi di giovane immigrato, l’aver dato voce alle immagini e ai suoni che compongono ogni esercizio della memoria (ad esempio: il suono del vento che accarezza le spighe dei campi), è il senso profondo e la cifra artistica del film di Adil Azzab.
Sono necessarie opere come questa, in un tempo difficile, come quello che stiamo vivendo, per aiutarci a guardare il fenomeno delle migrazioni con più serenità (e, forse, con più tenerezza).
Se era l’intento del regista, si può affermare con decisione che l’obiettivo è stato pienamente raggiunto.
Francesco Casarelli

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