FATTI

Roma, una Patria che integra da 2770 anni …

E’ di qualche giorno fa l’irruzione di una decina di naziskin durante un incontro di ‘Como Senza Frontiere’, rete che unisce varie associazioni operanti a sostegno dei migranti. In quell’occasione il portavoce ha letto un proclama che parlava di “immigrazione ad ogni costo”, di “pseudoclericali”, di “retorica mondialista”, di “turbocapitalismo alienante”, e ha concluso: “Ora potete riprendere a discutere di come rovinare la nostra patria”.
Verrebbe da discutere a lungo, sì, con quei ragazzi. 
Per chiedere loro cosa li ha resi talmente incattiviti dal rivendicare un “Nessun rispetto per voi!”. Per domandare chi ha insegnato loro storia, facendo assurgere a simboli di quella che potrebbe essere una giovinezza di ideali e di dedizione personaggi criminali e megalomani. Per sapere da dove giunge loro un’idea di patria astratta, svincolata da ogni riferimento alla nostra secolare vicenda.
Una vicenda lunga e travagliata. Quella di un popolo il cui eroe più celebrato, Garibaldi, è stato un profugo. Il cui poeta più famoso, creatore della lingua che tutti noi usiamo per comunicare, era stato un rifugiato, che aveva mendicato la sua vita “a frusto a frusto”, e che ben sapeva “come sa di sale / Lo pane altrui e come è duro calle /  Lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. 

La vicenda di un popolo antico, discendente da una grandiosa storia di migrazione. Quella di Enea, fuggiasco perché la sua città era stata distrutta. Da una grandiosa storia di meticciato. Quella di Roma, città che aveva saputo fondere già all’alba dei suoi giorni Latini e Sabini e che aveva reso concittadini popoli innumerevoli: “Fecisti patriam diversis gentibus unam / Urbem fecisti, quod prius orbis erat, “Hai reso di una Patria popoli differenti / Hai trasformato in una città ciò che prima era il mondo”, aveva cantato Rutilio Namaziano. 
Che cultura, quella romana! 
Al piccolo e chiuso, difensivo e in fondo disperato, grido degli skinhead nostrani preferirò sempre il largo sogno di integrazione dei nostri padri, e della nostra Patria. Al proclama vittimista di Como anteporrò comunque quello che è stato chiamato “il manifesto dell’integrazione romana”, il discorso dell’imperatore Claudio ai senatori titubanti davanti allo ius soli-ius culturae dei suoi tempi:
“Forse ci siamo pentiti che siano venuti qui i Balbi dalla Spagna, o uomini non meno nobili dalla Gallia Narbonese? Rimangono i loro discendenti, e non ci sono inferiori nell’amore verso questa Patria. [..] Il nostro fondatore, Romolo, fu così saggio da considerare moltissimi popoli – lo stesso giorno – prima nemici, poi concittadini. […] Da allora la pace è stata continua e sicura. Ora, assimilati i nostri costumi, attività, parentele, ci portino anche il loro oro e le loro ricchezze, piuttosto che, se separati da noi, finiscano per tenersele per loro. Senatori, tutto ciò che ora ha antichissima tradizione, un tempo fu nuovo. I plebei hanno ottenuto l’accesso alle magistrature dopo i patrizi, dopo i plebei i Latini, e dopo i Latini tutti gli altri Italici. Anche la decisione di oggi un giorno sarà antica, e quello che oggi legittimiamo attraverso esempi del passato, sarà considerato un esempio nel futuro”.

Francesco De Palma
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