Carovilli è un piccolo borgo di montagna dell’Alto Molise, nella provincia di Isernia.
Alla fine dell’ottocento era una zona molto povera, da dove la gente emigrava alla ricerca di una vita migliore.
Molti se ne andavano nelle Americhe, affrontando viaggi lunghi e durissimi.
Si contano in varie decine di milioni i migranti italiani del mondo nella storia e una discreta rappresentanza di questi sono originari del Molise.
Secondo i dati riportati sul sito del
Museo dell’Emigrazione del Molise, tra il 1870 ed il 1915, circa 300.000 molisani lasciarono la propria terra, per tentare la fortuna all’estero. Altri 300.000 se ne andarono nei decenni successivi, fino agli anni ’80. Questi dati sono comunque parziali perchè non tengono conto
“…delle numerosissime partenze clandestine e delle visite temporanee a parenti già emigrati che venivano poi trasformate in installazioni permanenti”. Si perchè c’è stata anche
un’emigrazione “clandestina” italiana, smentendo nei fatti la narrazione contemporanea per la quale “non si possono paragonare le attuali migrazioni, a quelle dei nostri nonni” e che ogni tentativo in tal senso, risulterebbe “offensivo” per i nostri connazionali che nel passato partirono per l’estero.
La verità è che le migrazioni si somigliano un pò tutte: si parte per gettarsi alle spalle la miseria, in molti casi per salvarsi la vita e tentare la fortuna altrove. E, nella disperazione, ognuno cerca di farlo come può, con ogni mezzo, legale o meno, che la sorte gli mette a disposizione.
Fu così anche per gli italiani, aldilà di ogni stereotipo su migrazioni “cattive” e “buone”.
Ecco un estratto da un articolo del giornalista Michele Pirone che descrive una delle tante partenze della prima ondata della migrazione molisana:
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Carovilli (IS). Altare Chiesa dell’Assunta. |
La piccola stazione, di sera, era rischiarata da un lume a petrolio, sistemato in una nicchia della parete esterna, e serviva anche a dar segnale di fermata al macchinista della vaporiera che arrivava sbuffando tra nuvole di fumo e getti di vapore compresso dagli stantuffi, fra le ruote di acciaio. Gli asini, i cavalli, i muli, scendevano lentamente Le Strette carichi delle valigie di cartone, con tanti giovani emigranti, in partenza per “l’altro mondo”, come si diceva in paese. Se ne andarono anche le mie zie, per raggiungere i mariti in America, e la nonna piangeva, stringendosi le figlie, come chi accompagna un defunto al cimitero. Nella biglietteria attendeva il capostazione con il berretto rosso e gli occhiali pendenti sul naso, e l’acetilene emanava un odore acre e una luce brillante. D’inverno un gran fuoco rosso vivo, scoppiettante nel camino, invitava ad entrare e ci si disponeva dinanzi al focolare. I più vigili, al minimo rumore, si affacciavano sull’uscio per cogliere l’arrivo del treno che appariva, a tratti, in lontananza; e poi scompariva nelle gallerie sotto i monti. La neve turbinava cadendo, il vento soffiava e il treno si avvicinava inesorabile. Intorno al fuoco i lamenti diventavano urli, forse anche bestemmie, contro il convoglio che, crudele, rapiva i giovani, avventurieri per bisogno”. Così (…) la prima emigrazione dal Molise, l’esodo massiccio e disperato dei giovani che fuggivano da una terra avara, inseguendo sogni di un futuro migliore. Che forse non ci sarebbe mai stato; ma, comunque, essi dovevano partire poiché, come sostiene Amir Klink, “il naufragio peggiore è quello di chi non ha mai lasciato il porto” (Michele Pirone, “Molise, Ieri e Oggi”).
In quella prima ondata di migranti molisani diretti verso l’America, c’era era una giovane coppia di sposi. Provenivano da Ferrazzano, un povero paese montanaro della provincia di Campobasso. I loro nomi erano Giovanni Di Niro e Angelina Mercurio. Dopo essere sbarcati ad Ellis Island, si stabilirono a New York, da dove iniziarono la loro nuova vita. Erano i nonni paterni del grande attore Robert De Niro.
Sono entrato nella settecentesca Chiesa Parrocchiale dell’Assunta di Carovilli e sono rimasto colpito da un altare collocato sulla navata destra. La data di costruzione era del 1891 e custodiva una statua di Maria Assunta. Secondo l’uso meridionale, ma non solo, di riportare “ad imperitura memoria” l’eventuale benefattore al quale si dovevano i lavori di abbellimento o di arricchimento di un edificio sacro, in cima all’altare, appariva una scritta: “Per divozione di 32 emigrati”.
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Vastogirardi (IS). Lapide commemorativa. |
Trentadue cittadini carovillesi partiti in cerca di fortuna all’estero fecero questo dono alla loro chiesa.
Fu un gesto di amore verso la loro terra, un modo per non dimenticare le proprie radici.
Vollero lasciare un qualcosa di loro al proprio povero e piccolo paesino di montagna: il luogo dove tutto ebbe inizio.
E’ uno degli aspetti della memoria del passato, delle proprie radici, quella che riaffiora nei momenti più inaspettati, che aiuta a comprendere meglio il presente e a scrutare il futuro con una consapevolezza più chiara.
Sono tante, in giro per l’Italia, le piccole e grandi tracce e memorie della migrazione italiana.
Ho visitato altri due borghi molisani trovando alcuni segni di questo grande esodo.
Ad Agnone, famosa per la Pontificia Fabbrica delle Campane, non si può non notare un vecchio edificio con una grande insegna in ferro battuto recante il nome” “Teatro Comunale Italo-Argentino”, costruito con i fondi raccolti dagli “agnonesi” emigrati nell’America del Sud. In un vicolo di Vastogirardi, piccolo borgo conosciuto per la rappresentazione sacra del “Volo dell’Angelo”, vi è un monumento che commemora i cittadini del paesino che partirono per l’estero; la targa specifica “Per gli emigranti che lasciarono gli affetti e i beni per garantire alle loro famiglie e a sé stessi un futuro migliore”.
Per ognuno di noi c’è un punto di partenza dal quale non si può prescindere.
E proprio per questo, mi piace pensare che tutte quelle tracce dell’emigrazione italiana, siano lì come un monito, a ricordarci chi eravamo e a gridarci cosa non saremmo dovuti diventare, oggi che l’Italia è una terra di approdo per i tanti che, dal sud del mondo, fuggono dalla guerra e dalla miseria.
Proprio noi che, come popolo, vivemmo sulla nostra pelle lo strappo dai legami e la struggente nostalgia; le difficoltà ad integrarci nei mondi nuovi che incontrammo; l’inaccoglienza e il disprezzo di chi diceva che eravamo troppi, brutti e che portavamo solo problemi (perché, a dispetto di ricostruzioni stereotipate, non fu semplice farci accettare); proprio noi dovremmo, oggi, parlare di più la lingua della comprensione e della solidarietà.
Francesco Casarelli
Le fotografie sono state scattate dall’autore dell’articolo.
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