INTERVISTE

Un pomeriggio di settembre con Inumi Laconico, l’ideatore dei “Poeti der Trullo”.

“Vorrei avecce ‘no strumento, pe’ comprende fino ‘n fonno, la follia der nostro tempo, tutto l’odio de ‘sto monno. Vorrei avecce ‘no strumento, pe’ da’ senso a ‘sto rumore, che azzittisce pure er vento e che ce atrofizza er còre. Vorrei avecce ‘no strumento, pe’ fa’ scioje i nodi in gola e addomestica’ er tormento che ce spegne ogni parola. Vorrei avecce ‘no strumento, pe’ cambia’ la sorte mia, ma c’ho solo un sentimento, carta, penna… e ‘na poesia”.
Inumi Laconico mi accoglie nella sua casa del Trullo.
Mi offre un caffè e iniziamo a parlare. Abbiamo molti ricordi insieme. Ci conosciamo da anni. Le nostre strade si sono separate per un lunghissimo periodo, per poi incrociarsi di nuovo, in quell’apparente casualità alla quale non ho mai creduto.
La condivisione profonda crea dei legami potenti che nè la distanza, nè il tempo, riusciranno mai a dissolvere del tutto.
Così è stato per noi.
Dopo più di vent’anni che non ci vedevamo, ci ritroviamo, seduti su due poltrone, a parlare come se ci fossimo lasciati il giorno prima, in un dialogo tra amici che non si è mai interrotto.
Rivedo in lui gli occhi buoni e un pò furbi del “ragazzetto di periferia” che fu.
Ora è un giovane uomo e, soprattutto, un poeta, con un gran bel cervello, capace di pensare in grande.
Qualche anno fa riunì altri 6 giovani come lui. Li accomunava una passione: la poesia. Avevano un sogno: rendere più bella la realtà dove vivevano.
Sono nati così i “I Poeti der Trullo”. Sette “artigiani della parola” che vogliono restare anonimi e firmano le loro poesie con pseudonimi come “Er Bestia”, “Er Quercia”, “Er Pinto”, “Marta der Terzo lotto”, “A Gatta Morta”, “Er Farco”, “Ottavo Poeta” e, appunto, Inumi Laconico. Hanno sempre applicato la filosofia della “Street Poetry”, cioè, quel movimento artistico internazionale che nasce dal bisogno di contestualizzarsi nella “semplicità della strada”, distaccandosi da un “sistema sociale non condiviso” e da “un’arte troppo formale”.
I sette (ora rimasti in sei dopo la fuoriuscita di uno di loro) hanno pubblicato un manifesto per spiegare la loro arte. Hanno coniato il termine  “MetroRomanticismo”, cioè una vero e proprio “Romanticismo Metropolitano”, calato nelle pieghe della periferia. In questo manifesto fondativo c’è scritto: “Il MetroRomanticismo si ispira al Romanticismo, nella sua accezione ottocentesca, quando le impressioni e le sensazioni creavano un forte tumulto del cuore e dell’anima e i sentimenti erano esaltati, regnando rumorosi e impazienti sulla ragione. Del Romanticismo prendiamo e portiamo nella periferia: il sublime, il senso di infinito, il sentirsi tanto piccoli di fronte all’immensità della natura, la tensione verso la profondità delle emozioni, l’esaltazione delle passioni”.
La Street Poetry marcia in simbiosi con la “Street Art”, quella dei pittori dei murales, in una stupefacente sintonia di colori e parole.
I Poeti der Trullo ad un certo punto incontrano i “Pittori Anonimi del Trullo“. Assieme a loro iniziano a colorare (e a raccontare) un quartiere della periferia urbana che, da un non-luogo marginale e un pò dimenticato, diventa una sorta di “caso artistico”, un quartiere “cult”, tanto che un intellettuale, del calibro dell’archi-star Paolo Portoghesi, interrogato sul futuro culturale di Roma, ha dichiarato: “Mah, vedo cose che fanno sperare. La Street Art, nuove forme letterarie popolari come i Poeti der Trullo: ecco fermenti e lieviti che vengono dal basso e possono rilanciare la cultura”.

Inumi Laconico davanti al murales con una sua poesia

I muri del Trullo, oggi, sono tappezzati dai murales contenenti le poesie di questi poeti, “nati dal basso”, ma capaci di pensare in grande.

F.C.: Poeti der Trullo, Street Poetry, MetroRomanticismo… Come nasce tutto ciò?
I.L.: Il nostro gruppo nasce a maggio del 2010 dall’incontro mio con Er Bestia, che è uno dei sette poeti. C’era la volontà di fare qualcosa per il Trullo. Avendo vissuto questo quartiere negli anni ’90 come luogo di degrado umano sociale ed esistenziale, c’era la voglia di dimostrare che da lì poteva nascere qualcosa di positivo. Ecco allora che la poesia, passione che ci accomunava entrambi, diventa lo strumento naturale per questo percorso rigenerativo. Abbiamo cominciato a scrivere e a diffondere i nostri testi, utilizzando internet e i social. Da lì è successo che quello che producevamo piaceva e noi ci sentivamo meglio. Piano, piano si sono aggiunti tutti gli altri che come noi condividevano questo desiderio di fare poesia. Dopo il 2010 è successo che tutto il mondo che avevamo dentro è esploso. Si è come rotto un vaso di Pandora: i lettori aumentavano in modo vertiginoso. Molti si identificavano con i nostri testi. I giovanissimi, per esempio. Questo perchè nelle nostre poesie abbiamo sempre utilizzato un linguaggio semplice e diretto. Non il romanesco del Belli, ma il romano odierno, quello parlato abitualmente nei quartieri. Molti di questi ragazzi probabilmente hanno pensato: “Ma se questi sette poeti riescono ad esprimersi così, con il linguaggio che usiamo per strada, anche noi possiamo fare lo stesso”. Così hanno cominciato a scrivere e ci sono arrivate centinaia di poesie, scritte da ragazzi di molti quartieri di Roma, ma anche da quartieri della periferia di Milano, Bologna o Torino… Si è creato così un movimento che noi abbiamo appunto chiamato MetroRomanticismo.

F.C.: Penso che avete compiuto un’interessante operazione culturale. Avete liberato la poesia da quella gabbia per cui sembrava fosse un’arte che appartenesse ad una ristretta élite, rendendola accessibile e praticabile a livello popolare. Tanti si sono appassionati alla poesia e, fatto molto originale, le “parole”, quelle che parlano al cuore e ai sentimenti, sono divenute un elemento di arredo urbano.
I.L.: In realtà non c’era un disegno dietro. Tutto è avvenuto in modo molto naturale. Durante una serata in giro per Roma, per pura casualità, è accaduto che ho scritto alcuni miei versi su un muro. Perchè è successo? Proprio perchè la nostra poesia era popolare e vicina alla vita della gente comune, pensai che fosse un bene “regalarla” alla strada e alla città. Mi affascinava l’idea che un passante qualsiasi, magari dopo una giornata grigia, vedesse una poesia su un muro e iniziasse a riflettere e a pensare. Per noi questa prospettiva era un motivo di orgoglio. Ci siamo “fomentati” a vicenda e da lì è partita la voglia di scrivere poesie dappertutto. Ci siamo dati delle regole, ad esempio di scrivere sui muri degradati e non sui monumenti. Abbiamo fatto parlare gli oggetti della metropoli, il cassonetto dell’immondizia, come se parlasse in prima persona… Abbiamo fatto parlare la cassetta delle lettere in disuso…  Ormai non scriviamo più le lettere, utilizziamo i social, le mail, wathsupp… Ma la lettera di carta ha un fascino immenso. La strada è un modo per uscire da noi stessi. Un sentimento bello chiuso dentro il tuo animo rischia di implodere. Se tu lo fai uscire, diventa contagioso e coinvolge tanti. Si crea così un circolo virtuoso di cui sei tu il primo beneficiario. Ecco allora il senso della poesia.

F.C.: Mi colpisce quello che dici e, allo stesso tempo, mi affascina l’utilizzo dei muri urbani come mezzo per esprimere valori condivisi. Molte sono le suggestioni. Mi vengono in mente i muri delle prigioni che, in qualche modo, sono addolciti dai graffiti dei prigionieri. O i grandi muri della storia – vedi il muro di Berlino – da grigio e opprimente viene come “addomesticato” dai “murales”. Poi la concezione di “muro” non più come strumento che divide, ma grazie all’arte diviene una sorta di ponte colorato che unisce. Insomma, l’idea da cui nascono movimenti come il vostro, è forse quella di vivere il quartiere, il Trullo ad esempio, non più come una prigione… Penso che dietro la vostra arte ci sia un grande anelito di libertà.
I.L.: Voglio sottolineare che per noi è stato importante l’aver iniziato un processo che ha contagiato tanti. Noi abbiamo iniziato a scrivere poesie poi, ad un certo punto, nel 2013, in una notte molti muri del Trullo si sono colorati, c’era un cartello: “Pittori Anonimi del Trullo”. Ci siamo chiesti chi fossero. Scoprimmo che era un gruppo di sessantenni che, ad un certo punto, vedendo le poesie che scrivevamo sui muri, si erano messi in testa di riappropriarsi del quartiere, migliorandolo, mettendosi in gioco in prima persona. Li abbiamo voluti conoscere e ci siamo uniti a loro. Colori e poesia. Poi è venuta l’idea di realizzare un festival. Abbiamo diffuso la voce e sono venuti al Trullo degli “Street Artist” di vari luoghi d’Italia. Il tema del Festival era “I Viandanti”, nel senso ampio del termine. Ognuno di noi, in qualche modo è un viandante. Da questo festival sono nati al Trullo i murales con le poesie come appaiono oggi. La soddisfazione è aver reso più bello il quartiere. Oggi, nella gente, è tornato l’orgoglio di essere del Trullo. Una volta ci si vergognava. Si diceva: “Io vivo in via Portuense”. Si, in effetti, credo che abbiamo contribuito a realizzare un bel processo di liberazione.

F.C.: Voi avete creato un “caso”, anche a livello mediatico. A questo punto potreste aspirare al successo, alla notorietà. Invece vi ostinate a nascondervi dietro l’anonimato, mantenendo l’abitudine di non apparire e di celare la vostra vera identità dietro gli pseudonimi con i quali firmate le vostre opere.
I.L.: Si, su questo siamo irremovibili. E’ stata una scelta naturale fin dall’inizio. In un mondo dove conta soltanto l’apparire egocentrico, noi vogliamo rimettere al centro “la parola”. E’ la poesia l’unica protagonista della nostra opera. Ci hanno invitato in varie trasmissioni, abbiamo avuto interessanti proposte di contratti editoriali. Abbiamo sempre rifiutato perchè avremmo tradito la nostra natura, popolare e anonima. La cosa che deve “passare” non è la nostra faccia, il nostro lavoro, quello che siamo… ma esclusivamente la poesia e il messaggio che essa racchiude.

A questo punto Inumi mi invita a fare una passeggiata per il Trullo, per vedere i murales e le poesie. Faccio qualche fotografia.
Mentre cammino penso a tutti quei ragazzi della periferia di Roma – e sono tanti – che vogliono cambiare il luogo dove vivono e cercano di fare qualcosa.
La libertà si nutre di sogni, sviluppa grandi ali e, quando spicca il volo, non la fermi più.

Francesco Casarelli


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