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Una critica ragionata al sistema delle RSA

La gravissima pandemia che in questi mesi ha colpito il modo intero, ha trovato nella fragilità degli anziani le principali vittime.

L’Italia è stato uno dei primissimi paesi europei a dover fronteggiare l’infezione dovuta al Covid-19. Settimana dopo settimana, la rapidità del contagio, ha costretto il governo ad adottare misure eccezionali.

Nel tentativo di fermare la pandemia, sono stati chiusi anche gli istituti di ricovero per anziani, le cosiddette Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) e le case di riposo. Con qualche giorno di differenza tra le varie città e regioni, ma nel corso dei primi dieci giorni di febbraio, nelle diverse strutture nessuno ha avuto più l’autorizzazione di entrare o uscire, a parte i fornitori e il personale sanitario che lavora nella struttura.

Senza nessuna eccezione. Fuori tutti i parenti, i volontari, i conoscenti, le badanti, religiosi.

Il virus, purtroppo, nonostante tutto è riuscito ad entrare nelle RSA e tantissimi anziani ivi residenti sono stati contagiati. Si è accertato che gli anziani morti a causa del virus siano stati fino ad ora più di settemila, solo in Italia, ma anche negli altri paesi le strutture per anziani sono state un grande luogo di contagio.

Foto LaPresse – Mourad Balti Touati 29/01/2018 Milano (Ita) – via trivulzio Cronaca Giorgio Gori, candidato presidente alle regionali di marzo, in visita presso il Pio Albergo Trivulzio Nella foto: l’ingresso dell’istituto

Uno studio pubblicato su “Quotidiano Sanità” il 30 aprile scorso, ha analizzato le criticità negli istituti per anziani: “Il dibattito di questi giorni nasce dal fatto che tali strutture, pensate per offrire una vita protetta a persone fragili, si sono rivelate contesti che hanno favorito la diffusione dell’epidemia tra le persone da proteggere come pure tra il personale dedicato alla loro all’assistenza”.

Lo studio ha evidenziato che “solo il 3% circa degli ultrasettantacinquenni italiani è ospite di tali strutture, ma ha generato quasi la metà di tutti i casi di malattia”.

Cioè, gli istituti sono stati luoghi di propagazione del contagio, per l’impossibilità di distanziamento fisico: sia per la scarsa cubatura, che per la vicinanza degli operatori che lavorano nella struttura. La turnazione del personale, il passaggio di medici e l’ingresso dei vari fornitori ha reso vano il tentativo (peraltro brutale, in particolare per gli anziani più malati o confusi, a cui era più difficile spiegare la situazione) di isolamento sociale che è stata adottato. Non ha protetto gli anziani dal contagio, ma ha aggravato la loro sofferenza, non potendo essi più ricevere visita fisse e una compagnia stabile.

Nello studio presentato da Giuseppe Liotta, Leonardo Palombi e di Maria Cristina Marazzi, medici e professori universitari – da sempre interessati e sensibili alle problematiche del mondo degli anziani – oltre a rimarcare l’inadeguatezza delle RSA, si sono presentate alternative al sistema.

Si è evidenziato che in Italia, una famiglia su tre è composta da un solo componente, e che più della metà degli ultraottantenni di Roma e Milano vive da solo. La seconda criticità è nella separazione tra sociale e sanitario nell’assistenza alla persona. Invece, proprio una compenetrazione fattiva di questi due aspetti, potrebbe favorire una valida alternativa all’istituzionalizzazione dei vecchi. L’integrazione tra sociale e sanitario a livello territoriale, nelle diverse forme dell’abitare e dell’aggregazione (quindi, il co-housing, i condomini protetti, le case famiglia, i centri diurni), può dar corpo al luogo fisico ed umano dove offrire i servizi necessari, personalizzati perché chiunque possa continuare a vivere a casa propria.

Per realizzare un tale progetto occorre l’attivazione quattro elementi: l’infermiere di comunità; un servizio sociale che provveda e garantisca tutte le attività della vita quotidiana; un servizio di telemedicina che eviti accessi ai Pronto Soccorso e ricoveri impropri, ma che, al contempo, offra un servizio medico adeguato; una rete informatica a sostegno dei vari servizi offerti all’anziano in modo che si integrino e riescano anche a comunicare tra loro e con l’utente.

Lo studio si conclude citando esempi concreti dove la domiciliarità è già attuata. Sono validi esempi da riproporre al posto di una istituzionalizzazione che ha fallito la sua missione. Si parla del Progetto europeo “Consenso”, attuato in Piemonte (con un infermiere di Comunità, che opera in ambiente rurale); il Programma “Viva gli Anziani!”, operante dal 2004 per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio in diverse città italiane, e coniuga la lotta all’isolamento sociale con i servizi di telemedicina e l’infermiere di comunità; i programmi di infermieristica di comunità condotti dalle ASL di Rieti, Trieste e Bologna, che integrano i locali servizi sociali.

Sono strumenti che riducono la mortalità e i ricoveri. Una politica che favorisca la domiciliarità deve essere attuata, sostenuta ed incrementata perché le RSA, oltre a non rispondere a requisiti di protezione e cura, hanno un costo economico insostenibile per lo Stato, le Regioni e le famiglie. Lo studio conclude il suo lavoro auspicando una “Riflessione sulla domiciliarità come luogo della cura e della protezione che matura da anni”, per decidere un orientamento per perseguire il bene degli anziani di oggi e di domani.

Germano Baldazzi

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