FATTI

La Roma di Wojtiła

Accadde 10 anni fa. Tra il 2 aprile 2005 – giorno della morte – e il successivo
venerdì 8 aprile – giorno delle solenni esequie in piazza san Pietro – la città
di Roma accompagnò come seppe Karol Wojtiła.

Fu un pellegrinaggio popolare, silenzioso ma eclatante, senza precedenti nella storia del
papato dell’ultimo secolo. Furono milioni i pellegrini che da molte parti del
mondo vollero rendere omaggio al papa più longevo del Novecento; ma anche tanti
i romani, fedeli (o meno) di quella diocesi di cui Giovanni Paolo II volle
essere pastore.

Sul rapporto di papa Wojtiła con Roma viene ora pubblicato uno studio di Antonio Scornajenghi, che analizza in profondità il
rapporto di questo papa con la “sua” città.
L’ultimo papa romano – occorre forse ricordarlo, in questo momento in cui i papi non sono più nemmeno italiani – è stato Pio XII: ma era davvero un altro tempo, quello dei totalitarismi e della guerra in Europa fin sotto la casa del papa, con Roma occupata dai nazisti e bombardata dagli alleati.
Wojtiła viene eletto il 16 ottobre del 1978, nel giorno anniversario della tragica deportazione degli ebrei di Roma, e subito intriga le folle con quella sua inedita prima allocuzione all’insegna del “se sbaglio, mi corrigerete”. Ma è approfondendo le relazioni di Giovanni Paolo II con Roma che Scornajenghi ricostruisce il cammino impressionante – probabilmente unico nella storia del papato contemporaneo – compiuto dal pontefice polacco .
Dalla sua, Giovanni Paolo II ha ovviamente le ragioni di avere avuto un tempo davvero lungo per esercitare il ministero di vescovo di Roma: 27 anni. Ma il tempo, da solo, non basta a spiegare il legame profondo che lo ha unito alla città, alla chiesa, ai poveri, ai cittadini comuni.
Come sostiene Marco Impagliazzo nell’introduzione al volume,

«[i]l rapporto profondo di papa Wojtiła  con la sua diocesi è ineludibile per comprendere la dimensione pastorale della sua vita giocata tra Roma e il mondo».

Così, nello studio di Scornajenghi – che sviluppa originalmente quanto avviato in un suo precedente lavoro dedicato a L’Italia di Giovanni Paolo II – si declinano nella realtà romana tutte le questioni cruciali affrontate in quegli anni da Karol Wojtiła: dal rapporto schietto e diretto con la politica ed il governo della città – cui il papa non mancò di rammentare la drammatica esistenza, allora come purtroppo anche ora di “angoli di Terzo Mondo” – a quello della presenza della chiesa, tra parrocchie, movimenti e famiglie religiose; dalla storica visita del papa ai “fratelli maggiori” ebrei presso la Sinagoga al Grande Giubileo del 2000; dalla memoria dei nuovi martiri cristiani alla fondazione di un nuovo rapporto solidale coi poveri vecchi e nuovi.
Si tratta di una storia ricca, complessa e sfaccettata, che il libro di Scornajenghi ricostruisce con chiarezza: ma la pista che più mi suggestiona, tra le molte offerte al lettore, è quella dell’amore singolare del papa polacco per Roma, divenuta sua “sposa” a motivo dell’elezione episcopale. L’ha voluta conoscere, visitandola e facendosi visitare, parlando ma soprattutto ascoltando, sognando per lei un futuro grande e diverso, di solidarietà universale, non identificato né nella “città sacra” del Concordato del 1929 né in altri ideali di governo politico. Conclude Scornajenghi:

«Giovanni Paolo II ebbe una visione alta di Roma: la città – a suo avviso – è molto più di un territorio, di una zona economica produttiva, di una realtà politica; è in primo luogo una comunità di persone, una esperienza umana, storicamente radicata e distinta culturalmente».

Era una visione – cristiana – originale, inclusiva ed accogliente, non politica ma consapevole della necessità che anche la politica si occupasse davvero dell’Urbe.

Non era forse a questo tipo di propositi che si riferiva – ovviamente ed in un altro tempo – Theodor Mommsen quando si rivolgeva a Quintino Sella nel 1871, all’indomani della presa di Roma da parte del governo sabaudo, quando disse: «Che intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti; a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti. Che cosa intendete fare?».
Ma è stata una grande visione (anche) per la Capitale, che ora sembra proprio soffrire – rinchiusa da tempo entro orizzonti angusti ed una cronaca piccina ed avvilente – dello stesso male di cui il giovane Wojtiła scriveva in una poesia (Pensiero – Strano spazio) nel lontano 1952:

«Io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto
per mancanza di “visione”.
Se soffre per mancanza di visione
– deve allora aprirsi la strada fra i segni
fino a ciò che gravita dentro e che matura come frutto nella parola».

Paolo Sassi

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